L’ispettore generale di Gogol, recensione: un carillon di burocrati e corruzione estremamente attuale
Corruzione e potere in chiave grottesca in scena fino al 23 febbraio al Bellini di Napoli con la commedia di Nikolaj Gogol, L’ispettore generale.
Adattata e diretta da Leo Muscato. In scena Rocco Papaleo con Elena Aimone, Giulio Baraldi, Letizia Bravi, Marco Brinzi, Michele Cipriani, Salvatore Cutrì, Marta Dalla Via, Marco Gobetti, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Michele Schiano Di Cola, Marco Vergani.
La storia si svolge in una piccola cittadina della provincia russa che viene sconvolta dalla notizia della visita di un ispettore generale, la qual cosa mette in allarme i funzionari e i notabili, ma soprattutto il podestà della cittadina. Il motivo che procura una tale agitazione fra tutti in personaggi viene molto presto chiarito. Sarà necessario nascondere le magagne della pubblica amministrazione e dare l’impressione che tutto funzioni perfettamente.
È evidente che le figurine di questa storia rappresentano i molti impiegati mediocri e corrotti che esistono ancora oggi e che tengono in caldo un posto di lavoro, rubando uno stipendio che non meritano. Non vi è nulla di più attuale in questo testo, ben scritto e capace di ironizzare e rendere grottesca una realtà che a ben vedere è molto oscura.
Questa realtà, molto viva ancora oggi appunto, si compone di corruzione, persone pronte ad approfittare anche della propria madre, basti pensare alla figura della moglie del podestà e di sua figlia che si contendono le attenzioni del presunto ispettore al fine di adescarlo. Per non parlare di coloro che sfruttano i più deboli e che credono che il denaro risolva tutto.
Gogol e le diseguaglianze sociali
Nikolaj Gogol è un autore molto bravo a mettere in scena le diseguaglianze sociali e la prevaricazione del più forte sul più debole, lo si vede anche in un testo come Il cappotto, dove però il dramma è ben più evidente e di ironico c’è poco o niente. In questo caso invece l’autore ha scelto l’ironia e gli schemi della commedia, primo fra tutti l’equivoco per raccontare qualcosa che è comunque atroce e orribile perché mette in evidenza la pochezza e la mediocrità di certi esseri umani, ma lo fa suscitando la risata.
Quando al termine di questo circo l’equivoco si è svelato le maschere cadono e i personaggi si rivelano per ciò che sono nella realtà. Improvvisamente la forza e la sicurezza dimostrata dal podestà nel corso della storia crollano e anche lui si vede piccolo e perso. Gogol di fatto ha messo in ridicolo una manica di burocrati che si sono sempre industriati per guadagnare qualcosa da ogni situazione e uscirne puliti.
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Dalla lotta tra bene e male qui resta solo il male
Sulle scene russe, la rappresentazione degli abusi quotidiani da parte dei burocrati statali non era una novità. Tuttavia, fino ad allora, i testi si fondavano su una chiara contrapposizione tra bene e male, con personaggi nettamente positivi o negativi. Ne L’ispettore generale, invece, per la prima volta tutti i protagonisti appaiono moralmente discutibili, un aspetto che il pubblico dell’epoca trovò difficilmente accettabile. Lo stesso finale risultava insolito e ambiguo: da un lato, non si assisteva né al trionfo della giustizia né alla punizione dei corrotti; dall’altro, restava incerto se il vero ispettore generale, annunciato nell’ultima scena, avrebbe riportato l’ordine o si sarebbe rivelato simile all’impostore.
In realtà, l’opera di Gogol si sviluppa più su un piano metaforico che naturalistico e, attraverso la comicità e la satira, mette a nudo la corruzione della burocrazia nella Russia zarista. L’ispettore generale trasporta lo spettatore in un universo dominato dall’ingiustizia e dall’arroganza del potere. Non è l’uomo a essere intrinsecamente malvagio, ma è la società stessa a plasmarlo come corrotto e corruttore, opportunista, sfruttatore e ingannatore.
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Come un carillon che racconta una favola senza lieto fine
La messa in scena diretta da Muscato è eseguita come un carillon d’epoca, con musica e atmosfera suggestiva fatta di neve, pellicce e abiti, d’epoca anche quelli, all’interno di una scenografia che gira appunto come un carillon dove su ogni lato si svolge una scena della storia. Anche i personaggi sono rappresentati come delle figurine (inteso sempre in relazione all’immagine del carillon) tipizzate e rappresentative della burocrazia opportunista di cui sopra. Rocco Papaleo nei panni del podestà è l’interprete più giusto, per le sue doti comiche in primo luogo e recitative in generale.
La sua è un’interpretazione di grande qualità, come aveva già dimostrato sia in teatro che al cinema. La sua tecnica e la sua gestualità sono adatte al ruolo che interpreta e, come sempre, risultano irresistibili. Il suo podestà si muove con naturalezza tra momenti solenni e attimi di leggerezza, mentre la sua ironia inconfondibile conquista il pubblico. Il resto della compagnia si è dimostrata all’altezza di tutto questo, con attori capaci di creare un’intesa scenica efficace. Di grande impatto anche la sintonia tra Papaleo e Daniele Marmi, perfettamente calato nel ruolo di Chlestakov: i due attori si completano a vicenda, con il primo che interpreta il suo personaggio con misurata tranquillità, mentre il secondo si distingue per un’energia frenetica e una presenza scenica vivace.