Io sono la fine del mondo, il film di Angelo Duro che punta alto ma crolla sotto il suo peso

La pellicola di Gennaro Nunziante e Angelo Duro divide il pubblico con un umorismo nichilista e controverso.

Raramente capita che un film non venga mostrato alla stampa prima dell’uscita, un dettaglio che di solito suggerisce aspettative non proprio elevate. Nonostante questo, abbiamo deciso di affrontare Io sono la fine del mondo in un multiplex romano, immergendoci in una sala gremita di persone: famiglie, adolescenti chiassosi e coppie assortite. Un pubblico variegato, ma con un denominatore comune—la curiosità verso l’ultima fatica di Gennaro Nunziante e Angelo Duro.

Duro, qui protagonista e co-sceneggiatore, è noto per un’ironia tagliente e poco convenzionale. Tuttavia, la distanza tra il personaggio che interpreta e il pubblico sembra abissale. La narrazione, che si snoda tra provocazioni e sarcasmo, si trasforma ben presto in un monologo dissonante, privo di quella connessione emotiva che rende efficace l’umorismo. Non si tratta solo di un problema di performance—Duro non è un attore e la sua inesperienza si nota—ma anche di una sceneggiatura che fatica a dare coerenza al racconto.

Il cuore del film ruota attorno a una vendetta famigliare disfunzionale. Angelo, il protagonista, è un autista di adolescenti ubriachi che si trova improvvisamente costretto a prendersi cura dei genitori anziani, interpretati da Giorgio Colangeli e Matilde Piana. Mentre questi attori veterani riescono a portare sullo schermo un certo grado di autenticà, il personaggio di Duro li circonda di una cattiveria tanto gratuita quanto esasperata. La promessa di un “revenge movie” graffiante si perde in una serie di gag poco incisive e situazioni che mancano di profondità.

Nonostante il tocco registico di Nunziante, abituato a lavorare con comici irriverenti come Checco Zalone, qui il risultato appare disomogeneo. La cattiveria del protagonista non riesce a diventare veicolo di una critica sociale o di una riflessione più ampia, limitandosi a essere un esercizio di stile fine a sé stesso.

Un protagonista estraneo alla narrazione

Uno degli aspetti più problematici del film è proprio la centralità del personaggio di Duro. La sua figura, pensata per essere provocatoria, finisce per risultare sterile. Gli eventi narrati, come le sue azioni contro i genitori, mancano di una base emotiva che possa renderli comprensibili o, almeno, digeribili. Le provocazioni si accumulano senza un filo conduttore, trasformando la pellicola in un collage di momenti sconnessi.

Paragonando Duro a comici altrettanto scorretti come Zalone o Ricky Gervais, emerge una differenza abissale: laddove loro sanno dosare l’ironia per colpire bersagli precisi, Duro appare fuori fuoco, un “robot” che agisce senza un chiaro obiettivo. Anche il pubblico, solitamente pronto a ridere o indignarsi, sembra perplesso, con reazioni sporadiche che non bastano a sostenere il ritmo.

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Un’occasione mancata

La regia di Nunziante, che in passato ha saputo valorizzare comicità scomode, non riesce a dare forma a un prodotto coeso. Il tentativo di raccontare la meschinità umana attraverso il nichilismo di Angelo Duro si perde in una sceneggiatura che, pur avendo spunti interessanti, non li sviluppa a pieno.

Le dinamiche familiari, che potrebbero offrire un terreno fertile per la riflessione, vengono relegate a un ruolo marginale. Persino gli attori più esperti sembrano lottare contro dialoghi che non riescono a dare spessore ai loro personaggi. Il risultato è un film che, pur volendo essere irriverente, finisce per risultare freddo e distante. Io sono la fine del mondo, con il suo titolo altisonante, rappresenta un esperimento audace ma fallimentare. La cattiveria ostentata non riesce a trasformarsi in un messaggio significativo, lasciando lo spettatore con un senso di vuoto. Gennaro Nunziante ci aveva abituati a una comicità graffiante e intelligente; qui, però, si limita a seguire un protagonista che non convince e una storia che non decolla. Un bluff che, come suggerisce il titolo, si rivela subito per quello che è: un gioco a carte scoperte, ma con poche carte in mano.