La Bête: a Venezia uno sci-fi confusionario che si credere un capolavoro | Bertrand Bonello non farlo più
Il regista Bertrand Bonello si cimenta per la prima volta con uno sci-fi ma il risultato è un film troppo ambizioso e completamente vuoto.
L’idea, tratta dalla novella La bestia nella giungla di Henry James, è interessante con scene e strutture suddivide su linee temporali differenti più che accattivanti, ma quando si gioca con il fuoco scottarsi è un attimo. Quindi tutto questo lavoro davvero complicato, alla fine, risulta totalmente vuoto.
La Bête è un film in cui la catastrofe è sempre in agguato sulle poco stabili fila del passato, dove il regista ci incasella una storia d’amore che si sviluppa nei secoli con flessioni sulle tragedie accadute un tempo, mascolinità tossica e l’avvento della tecnologia. La fantascienza di Bonello resta ancorata alle sue radici sociali, dove l’inquietudine prende sempre il sopravvento.
Sicuramente le immagini sono spettacolari ma nulla si innesca mai veramente lasciamoci ciondolare per 2 ore e 26 minuti nel malessere condiviso dai due protagonisti, interpretati da Léa Seydoux e George MacKay, che vivono una relazione disturbante attraverso i tempi e gli scopi che si muove velocemente sulla scena, ma non riesce mai a coinvolgere davvero.
La storia intensa su quello che dovrebbe essere l’auto isolamento che persiste in modo doloroso attraverso i secoli, portando gli esseri umani a desiderare di cancellare volontariamente la propria anima per vivere in modo più distaccato e sereno, finisce per risultato tremendamente frustrante non solo per i protagonisti, ma per lo stesso pubblico in sala, che si vede privato di quello che doveva essere il profondo contatto umano prima della distruzione dello stesso. Bisogna imparare da Eternal Sunshine of the Spotless Mind come sviluppare questo concetto.
La storia tremendamente complessa non porta a nulla
Per capire il senso di tutto bisogna per forza dividere le tre linee temporali, partendo dall’ultima: ci troviamo nel 2044 e l’intelligenza artificiale ha un ruolo fondamentale nella società, privando le persone della loro esistenza, per questa ragione Gabrielle decide di sottoporsi alla purificazione del suo DNA per liberarsi da ogni ricordo ed emozione così da poter trovare il suo posto in questo mondo.
La stessa cosa la fa anche Louis, durante le sedute che portano alla liberazione dalle emozioni è necessario rivivere i traumi delle vite passate e così inizia il film. Ci troviamo nel 1910, i due protagonisti si incontrano durante un evento mondano alla vigilia della Grande Alluvione di Parigi che causò distruzione. Il loro amore è forte, ma il loro destino è infausto.
L’amore e l’odio nel corso dei secoli
Così passiamo al 2014 in cui continua la sensazione di tremendo disagio e il presagio di distruzione, che in questo caso è determinato proprio da Louise, dove George MacKay ci regala quella che potrebbe definirsi una delle sue migliori e inquietanti interpretazioni. Il giovane ricco e disturbato parla alla videocamera di come vengano calpestati i diritti degli uomini proprio dalle donne, per le quali nutre profondo risentimento perché lo ignorano e deridono.
Il suo obiettivo da stalker è proprio la dolce e insicura modella e attrice francese Gabrielle trasferitasi a Los Angeles per cercare fortuna. Al contrario di come Louis descrive le donne che ha incontrato, lei è amorevole ma le sue offerte di pace non placano l’odio del ragazzo.
Potrebbe sembrare un capolavoro ricco di significato
Sebbene analizzando e scardinando ogni linea temporale potrebbe apparire un film destinato ad essere un capolavoro, ed effettivamente la storia lo permetterebbe, il disastro deriva totalmente dal montaggio disordinato delle tre linee temporali. Inizialmente ci viene presentato il passato in contrapposizione con il futuro, da metà film in poi è però il presente inconsistente a prendere il sopravvento.
Pare che l’intreccio inutilmente complesso del tempo voglia essere un esercizio di stile volutamente slegato più per ambizione, ma con il risultato fallimentare di far perdere di ritmo la narrazione, non facendo mai riflettere tra di loro le storie.
L’assurdo colpo di scena fa sussultare
Se pensate che tutto sia solo una completa noia concettuale, sì avete ragione, ma in tutto questo emerge il colpo di scena annunciato già nei primi minuti del film, dove è proprio la metafora della paura indotta a regalarci un sussulto. L’aspirante attrice Gabrielle ha un’audizione per un film horror, il tutto si svolge sul green screen e solo il suono ci fa intuire quello che dovremmo vedere intorno a lei, il terrore dei suoi occhi e l’urlo finale sono agghiaccianti.
Ma è soltanto verso la fine della pellicola che quello spazio verde e asettico viene riempito da un’ambientazione meticolosa, dando il merito al regista di essere ancora tra i grandi maestri del cinema contemporaneo. Il problema non è affatto la forma stilistica, ma la ridicola e inutile complessità narrativa mascherata da film d’autore, dove un piccione, che a questo punto considero La Bête (la bestia), continua fugacemente ad apparire quasi grottesca nelle inquadrature, come un sinistro presagio di sciagura.
Forse è lui la vera star e non me ne sono accorta, insomma questo Venezia, tra il pinguino di Polański e il piccione di Bonello hanno mostrato in che direzione si sta spostando il cinema d’autore: allo zoo.