Empire of Light, le magistrali interpretazioni della Colman e Ward sono sprecate in questo film piatto | Recensione
Empire of Light si presenta come una storia profonda sui legami umani in tempi bui, ma in verità è uno sfoggio inappropriato di un tema delicato.
Il premio Oscar Sam Mendes torna sul grande schermo per offrire uno spaccato della sua passione per il cinema, la musica e la cultura pop, in Empire of Light intreccia la cultura del Regno Unito negli anni Ottanta, in cui erano pesanti gli sconvolgimenti politici e razziali, con la grandezza del cinema e della musica mostrando come due argomenti tanto distanti tra loro possano unire persone diametralmente opposte.
I protagonisti della pellicola sono il premio Oscar Olivia Colman e la star emergente Micheal Ward, nonostante la sceneggiatura di Mendez permetta ai due di dare sfoggio del loro grande talento, la trama in sé rimane particolarmente debole affrontando tematiche delicate in modo inadeguato.
La Colman come sempre brilla, la vediamo vestire i panni di Hilary, una donna di mezza età molto sola con un passato difficile alle spalle e seri problemi di salute mentale, il suo lavoro è gestire un importante cinema di una città costiera inglese, l’Empire, ma non è da sola a farlo, con lei un gruppo di eclettici personaggi legati dalla passione per la musica e i film.
A loro si aggiunge un nuovo membro dello staff, Stephen (Micheal Ward), un giovane nero desideroso di scappare da quella città dove affronta giornalmente atti di violenza e razzismo. Tra Hilary e Stephen nasce subito un rapporto di complicità che si rafforza e cresce fino a diventare qualcosa di più profondo trovando conforto l’uno nell’altra. Insieme sperimentano il potere curativo della musica e del cinema, soprattutto se condivisi.
Temi profondi per una sceneggiatura scarna
Con Empire of Light, Mendes cerca di fondere i traumi e la compassione per gli stessi con la comunità e l’importanza della cultura pop, prendendo singolarmente questi temi sono sicuramente forti e di grande impatto per suscitare un legame umano, peccato però che la sceneggiatura riesca a scalfirne solo leggermente la superficie. Hilary ha problemi cronici di salute mentale che la portano a prendere il litio, con il risultato di renderla insensibile al mondo che la circonda.
Addirittura un abuso di potere a sfondo sessuale da parte del suo datore di lavoro, interpretato da Colin Firth, non riescono a scalfirla, lasciandola indifferente, il suo cambiamento arriva insieme al giovane Stephen, l’affascinante aspirante architetto in qualche modo riesce a ispirare Hilary ad abbandonare i farmaci, dandole la sensazione di essere stimolata e pronta ad affrontare di nuovo la vita.
La storia tra Hilary e Stephen
I due protagonisti cominciano gradualmente ad apprezzare la compagnia l’uno dell’altra e questo li porta a intraprendere una storia d’amore che lascia perplessi nonostante tra i due la chimica sia evidente. Comprendiamo l’attrazione e la sicurezza di Hilary nei confronti di Stephen, tuttavia non viene mai spiegata la reciprocità. Solo dopo si intuisce che i due legano per via di un trauma, il regista dissemina casi evidenti di razzismo senza che gli spettatori (compresa Hilary) assistano disorientati.
Questo rende difficile capire cosa unisca queste due persone apparentemente senza senso, mentre le occasioni di agire in coppia non vengono mai sfruttate pubblicamente. Proprio per questi problemi di forma, la storia non sembra un prodotto finito, ma una prima stesura dove ci sono le idee ma rimangono ancorate senza svilupparsi in qualcosa di concreto. Ogni tematica portata in superficie, per quanto importante, rimane isolata e non trova mai un punto di incontro con le altre in modo da creare la storia.
Un tentativo fallito dove si salvano alcuni elementi
Purtroppo Empire of Light fallisce sul suo punto principale, creare una storia commovente sul potere della comunità relazionandola con i problemi di salute mentale e le tematiche legate al razzismo sistemico, nonostante questo non tutto è da buttare, laddove la sceneggiatura scarseggia è la fotografia di Deakins che prende il sopravvento con i cinema lussureggianti, i tappeti rossi e persino lo skyline sui tetti sono tutti elementi magici per comprendere appieno la memoria e l’amore di Mendes per il mondo del cinema.
Ovviamente non si può non citare l’incredibile interpretazione dei due protagonisti, la Colman da il meglio di sé anche se forse ha troppo poco tempo per esplorare questo complesso personaggio, in poco tempo riesce a trasmettere i diversi stati emotivi che la attraversano, il modo in cui cambia radicalmente di umore in alti e bassi vertiginosi e magistrale, il co- protagonista Micheal Ward non è da meno e non si lascia oscurare dalla grandezza della Colman regalando una performance degna di nota.
L’ispirazione di Mendes per la sceneggiatura
Non sorprende in alcun modo che Mendes abbia scritto la prima sceneggiatura da solista su temi riguardanti le turbolenze razziali, avendo scritto Empire of Light al culmine della Pandemia in un momento in cui si è trovato a riflettere sul mondo che lo circondava e i ricordi del suo passato. Per questo è un peccato che i temi affrontati non riescano a fondersi in modo sinergico. Non mancano certamente i momenti commoventi, purtroppo però il risultato è vuoto perché raccontano qualcosa di fin troppo visto senza aggiungere nulla.
Parlare di salute mentale richiede un’attenta analisi che possa andare molto più in profondità, lo stesso vale per il razzismo, sappiamo tutti che esiste, ma sullo schermo serve qualcosa di più che mostrarci quello che vediamo quotidianamente, deve far smuovere le coscienze e purtroppo Empire of Light non raggiunge il risultato.