C’è la vecchia Hollywood, c’è la New Hollywood e c’è Quentin Tarantino
Tra i più grandi registi che quella macchina da film di Hollywood ha sfornato, definito “il regista più influente della sua generazione”, o il “regista Dj” ecco Quentin Tarantino.
Affamato di cinema sin da bambino, guardava e divorava film già a soli 7 anni, durante la rivoluzione cinematografica 1968-70, esattamente l’anno in cui la New Hollywood diventa Hollywood. Tra i film che il piccolo Quentin era abituato a vedere c’erano soprattutto (quasi sempre) film vietati ai minori, con scene di violenza non adatte a un bambino e questo lo sapeva anche lui: “a un certo punto, quando mi resi conto di vedere film che ai miei coetanei non era concesso vedere ne chiesi il motivo a mia madre. Mi rispose “Quentin, mi preoccupa di più se vedi i telegiornali. Un film non può farti male”.
Così tra film come “Senza un filo di classe” (1970), “la Guerra del cittadino Joe” (1970), “Pistola nera spara senza pietà” (1972), la passione di Quentin è cresciuta tra le sale cinematografiche del Sunset Boulevard come il Tiffany Theater, o della Broadway Boulevard, e si è fatta strada nei polmoni, nel cuore, e nella mente creativa di un genio che ha fatto di quella stessa passione il proprio lavoro. A volte, la passione unita ad un grande talento bastano a una formazione che egli stesso afferma non sia derivata da alcun tipo di studi: “Non sono mai andato ad una scuola di cinema; sono andato a vedere film”.
Le esperienze vissute nel vivo di quella Hollywood in continuo cambiamento, con l’avvento dei primi film blaxploitation – quando molti film d’exploitation iniziarono a essere realizzati a basso costo avendo come pubblico di riferimento gli afroamericani, e con un cast principalmente di attori afroamericani, che Tarantino tenta di ricreare nel suo “Jackie Brown” (1997) più tardi – sono rimaste incise nella sua memoria come segni indelebili.
Una volta, racconta all’interno del suo nuovo libro “Cinema Speculation”, recatosi al cinema con uno dei compagni di sua madre si era ritrovato sconvolto dall’entusiasmo del pubblico presente in sala: “ho passato la mia vita di spettatore e di regista cercando di ricreare l’esperienza di vedere l’ultimo film con Jim Brown un sabato sera del 1972 in un cinema frequentato solo da neri”.
Il vocabolario del cinema di Quentin Tarantino
Tanti sono i film che costituiscono il bagaglio culturale di Tarantino: dai film stranieri, a quelli di genere a quelli meno noti per un pubblico di nicchia. Nei suoi film è evidente l’impatto di quei film che appartengono ai suoi generi preferiti – gli spaghetti-western, l’exploitation, il cinema d’azione di Hong Kong, la Nouvelle Vague e il cinema britannico – ma anche dei registi che hanno avuto una grande influenza su di lui.
In particolare, nell’ambito del western Tarantino ha ammesso la sua forte ammirazione per i film di Sergio Leone, dal quale ha tratto ispirazione soprattutto nella sua “Trilogia del dollaro”: cenni western li ritroviamo in “Django Unchained” (2012), o in “The Hateful Eight” (2015), in cui evidente è anche l’influenza di film di samurai e in particolare quelli di Akira Kurosawa.
Per quanto riguarda il genere gangster, parlando dei suoi capolavori “Le Iene” (1992) e “Pulp Fiction” (1994), la sua è una lettura attenta di Jean Pierre Melville, soprattutto nei film “Frank Costello faccia d’angelo” (1967) e “I senza nome” (1970), del re della Nouvelle Vague Jean-Luc Godard, ma anche di Don Siegel regista di “Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!” del 1971, uno dei film visti durante la sua infanzia – parlando di Siegel nel suo ultimo libro, Tarantino spiega come mentre “La maggior parte dei registi che riprendevano scazzottate o sparatorie cercavano l’azione”, “quello che cercava Siegel, all’interno di quelle convenzioni, era la violenza”.
Infine, significativa l’influenza dei film di Hong Kong, quali “City on Fire” di Ringo Lam del 1987, da cui riprende “il Triello”, il così detto stallo alla messicana, sotto influenza anche dei film western di Sergio Leone, e il cinema di John Woo, “Lady Snowblood” del 1973, diretto da Toshiya Fujita, tra i “revenge movies” che, ovviamente, fa pensare a “Kill Bill”(2003-2004).
Il punto è che le riprese e i cenni da altri film che Tarantino riporta all’interno dei propri – come l’iconica scena ripresa da dentro la macchina con gli occhiali da sole posti sul parabrezza di “Gone in 60 seconds” (2000) che ritroviamo in “Kill Bill”, o la scena dell’uomo che, investito da una macchina ci rimbalza sopra di “The Killing” (1956), in “Pulp Fiction” – non sono omaggi: Tarantino è un artista a tutto tondo, alla pari dei maestri delle alte forme d’arte, utilizza gli strumenti del cinema per creare un cinema più grande, come possedesse un vocabolario del cinema, frutto della sua esperienza da spettatore.
La sua abilità nel rivisitare i generi modificandoli e mischiandoli con altri, con stili diversi in una chiave del tutto nuova e che funziona, lo ha reso un “regista Dj” così come viene definito da alcuni.
Violenza, vendetta, dialoghi e pallottole
Nel repertorio cinematografico di Quentin Tarantino sono nove i film di cui è sceneggiatore e regista. Nei suoi film Tarantino affronta una serie di temi, rivisita generi e li rende straordinari, mai visti prima, a partire dal primo “Le Iene”, realizzato quando ancora era un ragazzino che scriveva nei famigerati anni ’90 del cinema americano indipendente, a bassissimo budget, ma che gli è valso già la fama meritata.
Da lì non è stato che un successo dopo l’altro, riuscendo a non cadere mai nel banale avendo alle spalle film come “Pulp Fiction”, un “capolavoro pop” fatto di monologhi e dialoghi, andirivieni temporali, una linearità stravolta in cui per tutto il tempo sei sulle montagne russe: a tratti ti si ferma il cuore in gola, poi però tiri un sospiro di sollievo. Tutti i suoi film sono dominati dalla violenza, dai dialoghi assolutamente originali, che lasciano incantati gli spettatori a guardare e ad ascoltare ogni singola, minima parola che esce dalla bocca di chi sta parlando, anche se continuasse all’infinito, senza domandarsi il perché.
Si incontrano temi come il problema razziale, che ritroviamo in film come “Django”, in cui la storia di uno schiavo nero si ribalta per trasformarlo in un vero e proprio eroe: come se il suo intento fosse non solo quello di mostrare la brutalità di un pezzo di storia americana, ma anche quello di creare un eroe che nella realtà non ci sarebbe mai potuto essere, che salva la sua dolce metà, sterminando una grande quantità di persone. Tarantino è, infondo, anche un romantico, e lo dimostra oltre che nella struggente storia d’amore tra Django e Broomhilda, anche in quella che nasce tra Jackie e Max in “Jackie Brown”.
Il voler rendersi giustizia da soli, oltre che uno stravolgimento di quella che sarebbe la vera realtà, lo vediamo anche in “Bastardi senza gloria” (2009), quello che dovrebbe essere un film di guerra e in cui la guerra è appena accennata sullo sfondo, in cui la storia dello sterminio degli ebrei diventa un pretesto per vendicarsi da parte di questi ultimi: e allora abbiamo l’occasione di vedere la mano di un regista che senza voler distorcere la realtà, semplicemente, risponde a una domanda che “è la quintessenza di cosa vuol dire raccontare una storia: cosa succederebbe se?” Cosa succederebbe se gli hippie di Charlie Manson, al posto di uccidere Sharon Tate, uccidessero il suo vicino di casa, il celebre attore, per lanciare un messaggio contro l’ipocrisia hollywoodiana? Ed ecco la meraviglia di “C’era una volta a Hollywood” (2019).
Altri temi come il dovere, l’onore, la vendetta sono quelli che ritroviamo soprattutto in “Kill Bill”, un film tra la realtà e il fumetto, in cui Beatrix Kiddo, un ex assassina di una squadra sotto il comando di Bill, dopo essersi costruita una nuova vita, viene aggredita dagli ex compagni nel giorno del suo matrimonio. La donna, che riesce a cavarsela, farà una lista dei suoi nemici, pronta a scovarli nei posti in cui si trovano per avere la sua vendetta.
E noi, spettatori, non possiamo che caricarci della stessa rabbia vendicativa della protagonista e seguirla passo passo nel raggiungimento dei suoi obiettivi, come se in quel momento, fosse anche l’unico scopo della nostra vita. In “Kill Bill” c’è anche tradimento, lealtà, che ritroviamo anche ne “Le Iene”, in “The Hateful Eight”, definito come una versione di Le Iene western.
Un cinema “di genere”
Un altro spunto interessante è quello di un cinema “di genere” che vede una rappresentazione dei personaggi femminili come non era mai stata realizzata. Negli stessi anni di film come “Grindhouse – A prova di morte”(2007) – in cui il tema della violenza sulle donne viene del tutto capovolto – alle donne non era stata data la giusta importanza come protagoniste. In Tarantino, viene fuori un ruolo attribuito alla donna che non è un riscatto, non è per enfatizzare ma la loro posizione di comando è del tutto normale nella mente di un ragazzino cresciuto a guardare film della blaxploitation.
Eppure, i personaggi femminili non perdono mai quel lato di femminilità che li caratterizza: esemplare la scena in “Kill Bill” di quando Beatrix Kiddo lotta con Vernita Green: nelle due è evidente un istinto omicida e, allo stesso tempo, un istinto materno che emergono attraverso un solo sguardo e in una sola inquadratura, che è quella nel salotto mentre la figlia di sta scendendo dal bus.
La musica e il mondo di Tarantino
Caratterizzante dei suoi film è poi la musica, una musica che non passa assolutamente inosservata. È scelta con accuratezza e precisione, per il regista importante quanto il film, al punto da sembrare essere nata appositamente per quello scopo. In molti dei suoi film, riprende musiche già conosciute che, però, assumono una veste significativamente nuova: Quentin sceglie la musica, che già da se evoca un mondo, e la inserisce in una scena con cui crea un nuovo senso.
E a quel punto la musica diventa di Tarantino: “Girl, you’ll be a woman soon” è la canzone di “Pulp Fiction”, “Stuck in the middle with you” è la canzone di “Le Iene”.
Lunghi piani sequenza, grandi e larghe inquadrature che evocano il teatro, infiniti monologhi su un qualsiasi argomento, piedi femminili poggiati ovunque, riprese da dentro il bagagliaio, personaggi che sono un’estensione del regista, violenza non cupa ma a tratti coinvolgente e divertente, un’immenso amore per la settima arte sono tutti quegli elementi che fanno di un ragazzo innamorato del cinema, Quentin Tarantino.