Il remake del classico francese non riesce a sfruttare tutta la propria potenzialità, lasciando lo spettatore insoddisfatto.
È la Vigilia di Natale e Susanna (Diana del Bufalo), che ormai abita a Milano, ritorna nella casa d’infanzia, un’antica villa isolata in piena campagna. Qui ritrova la madre Margherita (Margherita Buy), la sorella minore Caterina (Benedetta Porcaroli), ribelle e moderna, la zia Agostina (Sabrina Impacciatore), innamorata del cognato, la nonna Rachele (Ornella Vanoni), sarcastica e schietta, e la nuova cameriera Maria (Luisa Ranieri). Il capofamiglia, Marcello, resta una presenza solo nominata, e ben presto viene ritrovato morto con un coltello piantato sulla schiena.
Il filo del telefono è stato tagliato, la macchina manomessa, il cancello chiuso con un lucchetto. In casa ci sono solo le sei donne, a cui si aggiunge Veronica (Micaela Ramazzotti), ex-amante di Marcello, allarmata da una telefonata che risulta anonima. Questo significa che l’assassino deve essere per forza una di loro.
Nel tentativo di scoprire chi ha ucciso Marcello, le protagoniste iniziano a sospettare l’una dell’altra e si interrogano a vicenda, precipitando in una spirale di segreti e tradimenti che metterà in mostra la fragilità dei rapporti nella casa.
Il film di Alessandro Genovesi è un remake di “8 donne e un mistero” di François Ozon, a sua volta adattamento della pièce teatrale del 1965 “Huit femmes” di Robert Thomas.
L’elemento teatrale rimane centrale, ma non si sposa benissimo con la componente cinematografica, e soprattutto con la performance di parte del cast. Non sorprende che Sabrina Impacciatore e Margherita Buy siano quelle più a loro agio con i tempi teatrali che la sceneggiatura richiede, ma vengono lasciate a loro stesse dalle altre protagoniste. E viene da pensare che forse sarebbe stato meglio vederlo direttamente a teatro.
Uscito in sala nel 2021, una volta approdato su Netflix è diventato il film non in lingua inglese più visto sulla piattaforma. Complici sono stati sicuramente le scenografie e i costumi. Da una prospettiva puramente visiva il film è innegabilmente bello. Attraverso gli abiti di scena, ad esempio, a ognuna delle protagoniste è associato un colore predominante che la identifica. In questo senso, l’attenzione ai dettagli è apprezzabilissima.
La trama si ispira al filone del cosiddetto “enigma della camera chiusa”, un sottogenere del romanzo poliziesco in cui il delitto viene compiuto in circostanze apparentemente impossibili, in questo caso dovute all’isolamento delle protagoniste.
L’ambientazione anni ’30, la villa sfarzosa, la tempesta di neve che imprigiona i personaggi richiamano i classici del romanzo giallo, e inseriscono il film in quella corrente di rinascimento del mistery avviatasi grazie a rifacimenti di successo, come “Assassinio sull’Orient Express”, e a prodotti completamente nuovi e riusciti come “Knives Out – Cena con delitto”.
La premessa vincente e il fascino visivo, però, non bastano. Nonostante lo sviluppo della narrazione risulti piacevole e il delitto abbastanza misterioso da voler arrivare alla fine, la soluzione giunge in maniera anti-climatica e sbrigativa; il movente risulta debole e il colpo di scena deludente. E alla fine anche il messaggio di sorellanza e riscatto viene trasmesso in modo stringato, affidato a una melensa frase fatta.
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