La scuola cattolica, la cruda realtà dietro il perbenismo | Recensione
La scuola cattolica è un film del 2021 diretto da Stefano Mordini, basato sull’omonimo romanzo del 2016 di Edoardo Albinati, e che ha al centro fatti realmente accaduti noti come il Massacro del Circeo.
Il film inquadra l’episodio di rapimento, tortura e omicidio di due ragazzine (Donatella Colasanti e Rosaria Lopez) , avvenuto nel comune italiano di San Felice Circeo tra il 29 e il 30 settembre 1975, inserito nel contesto più grande di una società fatta di apparenze e perbenismo.
La scuola cattolica è l’istituto frequentato dal protagonista, Edoardo, che racconta la vicenda dal proprio punto di vista dandoci, tuttavia, un quadro abbastanza esaustivo.
Edoardo, cresciuto in quella Roma, tra “figli di papà” e un’educazione autoritaria e a tratti bigotta, ci presenta le vite dei suoi compagni di classe, delle loro famiglie senza, però, soffermarsi troppo sulla propria.
Tutto ci prepara al momento cruciale dell’abominio più totale, quando le maschere scompaiono, la polvere sotto al tappeto cresce, il perbenismo lascia spazio alla vera natura, al male:
Angelo Izzo (Luca Vergogni) e Giovanni Guido (Francesco Cavallo) adescano le due bellissime ragazze, (intepretate da Benedetta Porcaroli e Federica Torchetti) e le convincono ad andare in una villa al Circeo facendo credere che arriverà il loro amico in comune Carlo.
Per più di un giorno e una notte i due torturano e violentano le ragazze insieme al loro amico Andrea Ghira. Rosaria muore, mentre Donatella si finge morta e riesce a sopravvivere.
La ragazza verrà così ritrovata viva, arrotolata in sacchi di plastica, nel portabagagli della Fiat 127 di Gianni.
In quel periodo “era diffuso il culto della violenza” ci dice Edoardo, e ogni storia lascia intravedere quel grado di trasgressione che trascina verso il “male”.
A partire dalla famiglia di Gioacchino: la madre lascia intravedere una sorta di repulsione interna verso la vita coniugale, così come la figlia Eleonora, che scopre il sesso andando contro le “regole” religiose con cui è cresciuta. Gli unici che sembrano credere davvero nei valori cristiani o, quanto meno, li rispettano, sono Gioacchino e il padre.
Altra forma di trasgressione è incarnata dalla madre di Pik, ex attrice che ha una relazione sessuale con Stefano Jervi, compagno di scuola del figlio; mentre Pik rivela i suoi problemi probabilmente relativi al rapporto con la madre, nel suo comportamento fastidioso e compulsivo e nel maneggiare la spada contro di lei.
Nella scena in cui Marco D’Avenia viene frustato dai compagni intenti a rievocare il quadro sulla flagellazione di Cristo mostrato dal professore, il ragazzo ha un’evidente erezione. Il padre di Arbus, lascia la famiglia dichiarandosi gay; Fratel Curzio viene beccato con una prostituta.
Una serie di circostanze per cui è palese, dunque, la volontà di sfogare le pulsioni umane e carnali che tutti i personaggi sono costretti a reprimere in ambito scolastico e familiare.
Probabilmente è questo il vero problema per il narratore: tutta questa repressione non fa che alimentare e alimentare fino a far emergere la violenza.
Ed è quello che spetta a quasi tutti i protagonisti, stando al racconto di Edoardo, quando ci rivela il loro destino: Benazza, fanatico neofascista – in cura da Gioacchino, diventato psichiatra – muore suicida.
Così e diagnosi di Gioacchino confermano così le tendenze di tutti: Chiodi sadico, D’Avenia masochista, e Jervi era saltato in aria mentre preparava un attentato terroristico.
Un mondo, dunque, di trasgressione e violenza, in cui del tutto predominante è, senza dubbio, la mascolinità tossica. L’uomo che deve dimostrare di esser uomo ogni giorno:
“nascere maschio è una malattia incurabile […] far vedere di essere forte anche se eri debole, ogni giorno dimostrarti un vero uomo, ma una volta dimostrato ripartivi da zero, e dovevi dimostrarlo ancora”.
E come si dimostra? Esercitando la propria virilità, “facendo vedere chi porta i pantaloni”, e ci sono moltissimi esempi. Innanzitutto, l’autoritario padre di Gianni, che incarna la figura patriarcale per eccellenza.
È lui il capo famiglia per cui si aspetta prima di mangiare, che frusta il figlio con la cinta per punirlo. Gianni, d’altronde, non può che sfogare la frustrazione di subire il giudizio pressante e l’autorità paterna esercitando il proprio potere, di conseguenza, sulle ragazzine torturate e violentate.
Un altro esempio che salta all’occhio è Angelo Izzo, che fa vedere chi comanda alla ragazzina salutata dal fratello minore, che intima al fratello di nascondere la sua omosessualità latente, che tratta le due ragazze come oggetti, senza alcun tipo di umanità in volto “pezzi di carne erano, pezzi di carne sono rimasti”.
L’oggettificazione estenuante della donna e l’abuso di essa sono evidenti anche in altre occasioni “meno gravi” come Eleonora per Jervi, o la sorella di Arbus schiaffeggiata dal ragazzo.
Il film è coinvolgente, e seppur nel suo strazio, alimentato da immagini crude e angoscianti e lunghe, ci invita a una riflessione. Gli uomini sono predisposti a fare del male “chi fa del male lo fa anche a sé stesso, […] noi diventiamo uomini ereditando il male, commettendo il male e subendo il male, per subirlo c’è bisogno di qualcuno che lo commetta”.
Culmine della disumanità sono i due ragazzi, Angelo e Gianni che tornano verso casa con le tue ragazze nel bagagliaio, ridacchiando e sbeffeggiandole. Per dirlo con le parole di Mark Twain “Tra tutti gli animali l’uomo è il più crudele. È l’unico a infliggere dolore per il piacere di farlo”.