Cinema

The Fabelmans, Spielberg ripercorre la sua infanzia in un film troppo lungo dove l’unica meraviglia è la Williams. Recensione

Steven Spielberg ripercorre la sua infanzia attraverso un film sicuramente affascinante, ma decisamente troppo lungo, la vera meraviglia e Michelle Williams nei panni della madre, si sente già profumo di Oscar.

La pellicola che sta facendo molto parlare di sé, The Fabelmans, è un film drammatico insolitamente intimo diretto proprio da Steven Spielberg, la storia si snoda attraverso numerosi ricordi significativi per il protagonista.

Uno sguardo inedito su quello che possiamo certamente definire il regista più famoso del mondo, la cosa particolare è che negli anni ha sempre cercato di mantenere il pubblico a debita distanza dal suo privato, adesso si è parzialmente lasciato andare ai sentimentalismi.

Nonostante nei suoi oltre 30 film abbiamo cercato di trasmettere soprattutto calore e emozioni forti, ha mantenuto una sorta di distanza, che con grande maestria ci ha permesso di conoscere solo vagamente chi sia il regista come professionista più che come persona.

Gli anni della sua formazione trovano qui una forma semi-fantastica – si tratta della famiglia Fabelman, non degli Spielberg – tuttavia i dettagli rimangono più o meno gli stessi: la storia di un giovane che scopre il suo amore per il cinema nel momento in cui la sua famiglia va in frantumi.

Tutto parte dalla sua prima esperienza al cinema, Sammy è in preda al terrore davanti al film Il più grande spettacolo del mondo ed in seguito ossessionato quanto tormentato da ciò che ha visto.

Fermamente intenzionato a ricreare l’incidente ferroviario, oggetto dei suoi incubi, per controllare e comprendere le sue paure, il giovane inizia un viaggio nel mondo dei filmati amatoriali, confortato dai genitori che gli ricordano come un hobby non possa occupare troppo del suo tempo.

Per quasi la totalità del film, il personaggio principale è nella fase dell’adolescenza, ad interpretare un giovane Spielberg romanzato troviamo un eccellente Gabriel LaBelle, il suo viaggio è spezzato tra il portare avanti con determinazione la sua passione per il cinema e la lenta quanto dolorosa decadenza del matrimonio dei suoi genitori, interpretati da Paul Dano e Michelle Williams.

Malgrado l’associazione ingiustamente generalizzata con il romanticismo, il progetto di Spielberg appare relativamente moderato e ancorato alla necessità di evitare le ovvie frivolezze che potrebbero essere facilmente presenti in questo genere di film.

La sceneggiatura, affidata a Spielberg (ma anche a Tony Kushner), oltrepassa quelle che potevano essere facili insidie in cui cadere per condurci in un luogo imprevisto soprattutto non scontato, privilegiando le emozioni magari minori, quelle non facilmente spiegabili, piuttosto che gli slanci strappalacrime del grande schermo.

Tuttavia, il film continua a essere distaccato, Spielberg ci offre una versione di se stesso e della sua famiglia un po’ troppo scenografata, manca una certa grinta nei momenti più bui e quella verità che tanto va cercando, i genitori hanno una forza recitativa disarmante, ma i dialoghi sono talmente perfetti da risultare surreali.

Se da un lato l’inventiva del giovane Sammy viene messa in pratica per far presa sul pubblico, con i limiti che un budget moderatamente basso impone (è davvero entusiasmante vedere le scene in cui trova modi ingegnosi per far sembrare imponenti i suoi film amatoriali, anche se sembra quasi che sia tutto frutto del suo genio e non di fatica e duro lavoro), dall’altro lato i genitori vivono in una situazione di crisi profonda.

L’ascesa professionale del padre li costringe a trasferirsi di stato in stato, mettendo a dura prova il rapporto d’amicizia con lo “zio” Benny, interpretato da Seth Rogen, che Sammy capisce essere più di un semplice amico per la madre.

Se da un lato Spielberg rifugge dai facili conflitti in stile soap opera che una situazione del genere solitamente crea, tanto da esserci a malapena momenti in cui i personaggi alzano i toni della voce, dall’altro non mostra quasi mai il quadro d’insieme molto più grande e disordinato.

I traumi derivanti dalla depressione, il profondo antisemitismo, il bullismo, le conseguenze di un divorzio e dell’infedeltà non appaiono mai così traumatici come invece sono, il direttore della fotografia Janusz Kaminski li fa sembrare come se facessero parte di una bella e nitida cartolina.

È inusuale che Spielberg lavori con una sceneggiatura poco strutturata, con un film che salta da un momento all’altro invece di qualcosa che sia più serrato e razionale, ma se da un lato rende la pellicola un autentico ricordo, dall’altro la drammaticità risulta alquanto sottotono: il giovane protagonista è rappresentato a tuttotondo, mentre i suoi genitori mancano di qualche dettaglio in più, ma badate bene, gli attori hanno fatto un lavoro che da lunga data non si vedeva sullo schermo.

Non stupisce, infatti, che per la Williams si stia già parlando del fatto che sia finalmente arrivato il suo momento per l’Oscar che merita da molto, con le sue quattro nomination ricevute in passato, il lavoro che ha svolto nella cura di questo personaggio non può passare inosservato.

Insolita e concreta, spinta da un’energia indescrivibile e strana che non siamo abituati a vedere nelle madri di periferia degli anni ’50 e ’60, in una scena emblematica, guida in direzione di un tornado, con tutti i figli in macchina, anziché allontanarsene.

In conclusione, non posso dire di essere uscita dal cinema (che è il vero posto dove il film va visto, come da indicazioni di Spielberg) completamente soddisfatta, a volte appare un po’ troppo artificioso e sofferto.

Il personaggio di Dano, il cui fascino e l’atmosfera che porta sono di solito sfruttati per creare inquietudine, in questo caso risulta decisamente delicato, morbido anche nell’aspetto, ma il vero colpo di fulmine è rappresentato da un breve cameo del grandissimo Judd Hirsch nei panni di uno zio strano e alienato, si presenta in casa della famiglia per una sola notte che diventerà certo della vita di Sammy.

In uno straordinario discorso su come affrontare il bisogno di creare arte costruisce il punto cardine di tutto il film. Non stupisce se anche per lui dovesse scattare qualche premio, perché seppur il tempo passato sullo schermo è relativamente poco, l’importanza del messaggio che porta regge da solo tutto il film. 

La durata di 150 minuti è l’aspetto più sgradevole della rivisitazione nostalgica di Spielberg, un viaggio eccessivamente lungo sul viale dei ricordi che avrebbe potuto essere affrontato con qualche sosta in meno.

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