La trama passa dal melodramma alla farsa, spesso è sconcertante e il lavoro di marketing per il settore lusso potrebbe essere frutto di un compito di The Apprentice. Combatterla è fatica inutile, chiamiamola però con il suo nome: guilty pleasure.
Con Emily in Paris non abbiamo iniziato nel migliore dei modi, ho guardato la prima stagione e ho pensato che fosse una scemenza senz’anima, insulsa e insopportabile, eppure, nel giro di pochi giorni, molte persone che conosco la stavano guardando. Sembravano perlopiù d’accordo sul fatto che si trattasse di una sciocchezza insulsa, ma erano felici di soffrire durante la prima e poi anche nella seconda stagione.
Per prepararmi alla terza e per dovere di cronaca, ho guardato anche la seconda stagione, un po’ a malincuore, ho detestato l’egoista e protagonista Emily (Lily Collins) e ho trovato la sua forzata follia fastidiosa. Probabilmente le aspettative si sono ridotte, o forse il bisogno di leggerezza è cresciuto dopo il 2020, ma il fastidio verso tutto questo è diminuito lasciando spazio alla leggerezza, sembrava anche che la giovane donna fosse diventata più consapevole di sé.
Emily non era più il centro dell’universo e al cast di supporto erano state date personalità al di fuori della sua orbita. Comprendeva le sue assurdità, Emily stava persino imparando il francese, non era esattamente il paradiso, ma nemmeno l’inferno.
Emily ritorna per una terza stagione con il suo caos, i membri dello staff francese hanno lasciato l’azienda di marketing Savoir per mettersi in proprio, e il capo americano Madeline (Kate Walsh, che ha afferrato perfettamente il tono che si voleva ottenere e si esibisce in una virtuosa performance stereotipata) sta cercando di farsi strada tra le confusioni culturali del mercato francese del lusso. Per fortuna ha Emily al suo fianco, anche se, con un colpo di scena che tutti si aspettavano, cerca di lavorare contemporaneamente per l’azienda francese e per Madeline, che è molto incinta.
Inspiegabilmente, però, tutti desiderano Emily e vogliono aiutarla, è un’influencer di successo, che trasmette in livestreaming i suoi spostamenti in città mangiando mousse al cioccolato e guidando un Segway davanti a Notre-Dame. Madeline e Sylvie, il vecchio capo di Emily, se la contendono, anche se la seconda è troppo orgogliosa per ammetterlo. E l’ex fidanzato di Emily a Chicago le propone un contratto con McDonald’s, che a Parigi sembra essere il massimo della raffinatezza (mah). Almeno uno degli attori francesi ha la decenza di mangiare la sua McBaguette con disprezzo a malapena mascherato.
Ma se tutti vogliono Emily, cosa vuole Emily? Ora che sa parlare un po’ di francese, vuole rimanere a Parigi, invece di tornare a Chicago come previsto. I primi episodi trascorrono molto tempo a cercare di rimettere insieme i pezzi dopo aver distrutto tutto nella seconda stagione, a partire dall’ubicazione degli uffici e di chi sarà il suo capo.
Non riesco ancora a seguire appieno l’aspetto lavorativo, in parte perché chiunque Emily incontri in qualche modo viene reclutato nel mercato del lusso francese, indipendentemente dal fatto che sia un contabile, un cantante jazz o il genitore di un amico. Quello che perde completamente di credibilità sono le campagne che producono, sembrano quelle della squadra perdente di The Apprentice.
Nonostante sia una calamita per tutti gli uomini di Parigi che sembrano usciti dal set di un servizio fotografico di biancheria intima per un catalogo di fascia media, anche la vita privata di Emily va a gonfie vele. Ha un fidanzato di nome Alfie, in possesso della peluria facciale più immacolata che il mondo abbia mai visto, talmente affascinante e spregiudicato da chiamarla per cognome, la canaglia. Ma la chimica persistente tra Emily e lo chef Gabriel continua a divampare, anche se Gabriel e Camille stanno facendo un altro tentativo ed Emily cerca di essere amica di entrambi.
Dopo aver visto la seconda stagione e aver aspettato (con una imbarazzante trepidazione) la terza, adesso so che Emily in Paris è terribilmente gustosa. Non ha molto senso, ma è così incessantemente frizzante che non ne ha bisogno.
I vestiti sono brillanti e ipnoticamente sgargianti, al punto che, come il suo antenato Sex and the City, si desidera solo che inizi un nuovo episodio per vedere cosa indossano tutti. La trama passa dal melodramma alla farsa, si vocifera di una morte e di un intermezzo con ologrammi, che, insomma, nel suo genere risulta anche divertente, l’importante è ricordarsi sempre di tenere le aspettative basse.
Questa serie ti lascia la possibilità di spegnere il cervello per qualche ora e lasciarti coccolare dalla frivolezza, il lusso senza senso, un tocco di banalità e tutte quelle cose che negli ultimi anni abbiamo dovuto mettere da parte. Quindi va bene, Emily in Paris, mi arrendo. Hai vinto tu.
(Ps: vi prego però, adesso non fatevi tutte la frangetta… e soprattutto non da sole, non viene così bene.)
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