Avatar: La Via dell’Acqua, uno spettacolo visivo insipido e banale da un miliardo di dollari. Recensione
Dopo tredici anni di duro lavoro, l’insipido e troppo lungo seguito del film di fantascienza da record di James Cameron è una costosissima vecchia balena spiaggiata, Avatar: La Via dell’Acqua non ha imparato dai suoi errori.
Inondandoci di una delusione che difficilmente può essere confessata ad alta voce, il nuovo film digitalizzato di James Cameron si è arenato come una balena enorme e inutile. La storia, che potrebbe riempire un cartone animato di 30 minuti, viene allungata da un programma di intelligenza artificiale in un film di tre ore di epica pochezza.
Il primo Avatar ha rappresentato un pionieristico spettacolo fantascientifico in 3D realizzato da Cameron bensì nel 2009. Adesso, dopo 13 anni di costosissimi pixel, è arrivato il seguito acquatico, con un terzo e un quarto film sono che già in programma. Si tratta di una pellicola disponibile sia in 3D che in 2D e rimane comunque coerente con la visione tridimensionale di Cameron, l‘unico che è riuscito quasi da solo a non far morire il 3D, mentre il resto dell’industria cinematografica se n’è tranquillamente dimenticata.
Tuttavia, l’intera idea dell'”avatar” del primo film – il corpo creato artificialmente che può essere comandato a distanza in un mondo sconosciuto e che costituiva una parte drammatica dell’esperienza 3D per il pubblico – è stata abbandonata. Per quanto tecnicamente impressionanti, gli effetti speciali si riducono a una fluidità di movimento ad alta frequenza dei fotogrammi che però rimangono privi di anima e senza sostanza, creando non tanto una “valle del mistero” quanto un’inquietante fossa delle Marianne nelle profondità del mare.
Il mondo sottomarino di Cameron è come uno meraviglioso salvaschermo da un trilione di dollari, che fine hanno fatto la passionalità e il pericolo derivate dall’oceano che abbiamo vissuto sulla pelle nelle grandi epopee di Cameron, come Titanic o The Abyss? Anche se effettivamente in alcune scene si può rivedere la sensazione ansia vissuta nel film con DiCaprio, senza però il valore della drammaticità dell’evento storico.
La situazione da cui partiamo è che l’ex-umano Jake Sully (Sam Worthington) si è definitivamente convertito al corpo Na’vi, inizialmente usato per introdursi nella tribù dai corpi blu e dalle orecchie a punta, questo come parte della strategia “avatar” del primo film, prima di innamorarsi della guerriera Neytiri (Zoe Saldaña) per poi schierarsi con il suo popolo contro gli umani che avrebbero sfruttato le risorse minerarie dei Na’vi.
Adesso, alcuni anni dopo, Sully e Neytiri vivono felici con i loro figli e la figliastra Kiri – il cui legame con il film originale diventa presto evidente – a loro si aggiunge anche con un bambino umano semi-ferino di nome Spider.
Ma proprio quando pensavano di essere felici, riappare il “popolo del cielo” del pianeta Terra e c’è un colpo di scena, per quanto ingegnoso, che riguarda il colonnello dei marines Miles Quaritch, memorabilmente interpretato da Stephen Lang.
La famiglia di Sully deve lasciare il proprio habitat nella foresta pluviale e nascondersi tra i lontani Metkayina, un popolo anfibio della barriera corallina guidato da Ronal (Kate Winslet) e Tonowari (Cliff Curtis). Dovranno imparare la mistica arte dei Metkayina di sopravvivere per lunghi periodi sott’acqua. I figli di Sully e i quelli di Tonowari, dapprima spigolosi e rivali, diventano amici per la pelle, una sorta di fratellanza. Tuttavia, anche questo nuovo Eden non può durare per sempre.
Il mondo sottomarino di questo film, a suo modo, è il protagonista assoluto e il punto di forza dell’intera pellicola, il passaggio dalla terraferma al mare rappresenta l’unica vera trama con un po’ di sostanza e questo la dice lunga, ma non è tutto perché questo mondo marino, che dovrebbe rappresentare la vera innovazione e regalare la magia per gli occhi che tanto aspettavamo, in realtà è rappresentato in modo molto stereotipato.
E cosa troviamo a parte la sofisticata sovrastruttura high-tech? Una trama decisamente insipida che sembra una storia per bambini priva di umorismo, una storia per ragazzi priva di ferite emotive, un thriller d’azione senza la durezza di un’eccitazione reale. I dialoghi sono pressoché inesistenti, dove le battute spesso si ripetono e sembrano echi di storie già viste e sentite.
Dopo le pesanti critiche al primo film, in cui non veniva messa in dubbio la grande qualità nell’uso della tecnologia, ma la pochezza della storia, ci si aspettava che in tredici anni si potesse imparare dagli errori del passato e scegliere la via della sceneggiatura, invece di puntare tutto solo sull’acqua e le sue creature, facendo finire nello sciacquone un altro copione.