Derry Girls: il gioiello irlandese tra nostalgia e familiarità. Recensione
Se, come me, siete cresciuti verso la fine degli anni ‘90 a Nesquik e cartoni animati, ritroverete una strana familiarità in “Derry Girls”.
La serie semi-autobiografica creata da Lisa McGee, conclusasi con la terza stagione uscita su Netflix il 7 ottobre, conta cinque protagonisti archetipici: Erin (Saoirse-Monica Jackson), l’aspirante scrittrice un po’ piena di sé, sua cugina Orla (Louisa Harland), che vive in un mondo tutto suo, Claire (Nicola Coughlan, la Penelope Featherington di “Bridgerton”), la secchiona nevrotica, Michelle (Jamie-Lee O’Donnell), festaiola e impertinente, e suo cugino James (Dylan Llewellyn), ufficialmente nominato “Ragazza di Derry” anche lui.
La premessa è piuttosto semplice: cinque adolescenti che affrontano la normalità nell’Irlanda del Nord degli anni ‘90. Una normalità poco normale, però, poiché il paese è ancora diviso dal conflitto nordirlandese, la guerriglia che vede opposti i cattolici nazionalisti e i protestanti unionisti.
La città stessa in cui si svolge la vicenda, e che dà il nome alla serie, è emblematica dei disordini: Derry (o Londonderry – “a seconda delle vostre convinzioni” commenta Erin nel primo episodio –, il nome preferito dai protestanti), in cui si è consumata la strage del Bloody Sunday.
Gli eventi politici sono sempre presenti, nel sottofondo di una tv accesa sul telegiornale che dà notizie di attentati, o nelle figure dei soldati che presidiano le mura della città. Ma il focus è sulla quotidianità delle ragazze: mentre la televisione annuncia un allarme bomba, Erin discute con i genitori sulla libertà di mettere ciò che vuole per andare a scuola; l’autobus che ogni mattina porta il gruppo all’istituto cattolico che frequenta viene fermato dai militari per una perquisizione; i loro campi estivi sono programmi di integrazione fra cattolici e protestanti.
Complice la pandemia, adesso un po’ tutti siamo in grado di capire che cosa significa vivere normalmente in un contesto che di normale ha ben poco – il che ci porta alla grande forza di questa serie: la facilità con cui lo spettatore si riconosce nei personaggi.
Come detto, i tempi che le ragazze vivono sono tutt’altro che ordinari, ma i loro problemi sono universalmente caratteristici degli adolescenti: superare gli esami, trovare i soldi per un viaggio, affrontare la ragazza snob della scuola. Soprattutto, farla franca con Sorella Michael (un’irresistibile Siobhán McSweeny), la sarcastica e insofferente direttrice della scuola, fonte di alcune tra le migliori battute della serie, e che in fondo un debole per le ragazze ce l’ha, non importa quanto lo nasconda dietro le sue iconiche espressioni seccate.
I designati antagonisti e, più spesso che no, riluttanti complici delle ragazze sono gli adulti, in particolare la famiglia di Erin, che contorna tutte le loro vicende: la tostissima madre Mary (Tara Lynne O’Neill), il padre Gerry (Tommy Tiernan), sempre in conflitto con il fantastico nonno Joe (Ian McElhinney, che i fan de “Il Trono di Spade” riconosceranno per il ruolo di Barristan Selmy), e la svampita zia Sarah (Kathy Kiera Clarke).
Ad arricchire il cast principale c’è una varietà di personaggi secondari che si vedono saltuariamente per uno o due episodi a stagione, e che al di fuori di quelli non vengono mai nominati. Proprio per questo, ogni volta che ricompaiono sullo schermo è come ritrovare vecchi biglietti del cinema nelle tasche del cappotto.
C’è il logorroico zio Colm (Kevin McAleer), noioso fino allo sfinimento ma che perciò si rivela più volte l’arma perfetta nelle mani delle ragazze (e che alla fine si prenderà anche una piccola rivincita); lo scorbutico Dennis (Paul Mallon), che non perde occasione per battibeccare con le ragazze e infine cacciarle dal negozietto che gestisce (“Fuori di qui!” è la sua battuta caratteristica); e il belloccio Padre Peter (Peter Campion), che con i suoi magnifici capelli incanta le ragazze (e James).
Gli episodi (sei a stagione, più uno speciale finale) si basano su premesse tipiche della sitcom – un fraintendimento, una gita fuori porta, un imbroglio –, e sono tutti autoconclusivi, in quello stesso modo in cui lo sono gli episodi dei cartoni animati degli anni ‘90.
Non c’è una trama “più grande”, non c’è un punto in cui si deve giungere: vengono raccontati piccoli momenti della vita dei protagonisti che non hanno per forza un fine ultimo, se non quello di condividere – una cosa che nella televisione di oggi non si vede più così spesso. E l’abilità di McGee sta nel sottolineare come, anche in circostanze straordinarie, c’è ancora una vita ordinaria da vivere.
I dialoghi sono brillanti e brillantemente recitati. Non una parola di troppo o fuori posto, eppure gli scambi tra i personaggi sono così carichi di battute che una sola volta non basta: “Derry Girls” è una di quelle serie in cui a ogni rewatch si colgono cose nuove, mentre le cose già colte continuano a far ridere e a fare breccia. La chimica tra gli attori è palpabile, e neanche per un attimo viene da dubitare del loro affiatamento.
La serie è una commedia, ma i momenti tristi, quando arrivano, lo sono davvero. Ed è importante che arrivino, improvvisi e scioccanti e in apparenza impossibili da superare. Così come accade nella vita. Sono momenti da cui non si può tornare indietro, in cui si perde un po’ di innocenza, perché fanno parte del diventare adulti. Alla fine ci si rende conto che su tutto aleggia la consapevolezza che si deve crescere.
E la serie sa perfettamente che non si tratta di una scelta, non è una cosa che si può evitare. “Derry Girls” è, fondamentalmente, una storia di formazione, e questo significa che deve concludersi, in maniera molto naturale, quando i protagonisti diventano adulti. In una delle ultime scene James chiede a Erin come si sente ora che ha diciotto anni. La risposta, in tutta la sua semplicità, è dolorosamente condivisibile: “Non sono sicura di essere pronta per il mondo. Ma le cose non possono restare come sono. E non dovrebbero”.
La vicenda si conclude nel 1998, e i personaggi che abbiamo imparato a conoscere per la loro comicità e leggerezza si trovano a dover affrontare una decisione che potrebbe cambiare il loro mondo: l’Irlanda del Nord è chiamata alle urne per votare il Referendum del Venerdì Santo, l’accordo che sancì la pace nel paese e pose fine alla lotta armata.
D’improvviso la posta in gioco è alta. Meravigliosa l’immagine che chiude la stagione finale: nonno Joe che saltella fuori dal seggio mano nella mano con la nipote più piccola, un incontro generazionale che ha voglia di lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato.
La comicità e la leggerezza delle situazioni, nonostante il periodo storico, rendono l’incorporazione della tragedia ancora più pungente, e fanno capire che qui si sta parlando di vita vera, quella vita così frammentaria e amara e frivola e incredibilmente significativa che tutti viviamo.
Si sta parlando di universalità. Perché nonostante le differenze culturali e storiche, nonostante la barriera linguistica (non esiste una versione doppiata della serie, e forse è meglio così: l’inflessione irlandese è un elemento imprescindibile dall’esperienza di visione), “Derry Girls” parla di qualcosa che a un certo punto siamo stati e saremo tutti: adolescenti alle prese con la vita.