Netflix racconta la storia delle origini di Spotify, ma Daniel Ek – l’uomo più potente della musica – non è Steve Jobs. Vale comunque la pena di guardarlo per il disagio che si prova dopo il finale.
Grazie a The Social Network, le biografie sulla tecnologia tendono ormai a seguire lo stesso schema. C’è una startup, fondata in una nebbia di risentimento da un unico visionario ossessivo e carismatico. C’è la lotta per raggiungere il successo, per mostrare a un mondo resistente al cambiamento come sarà il futuro. E infine c’è una vittoria sfrenata che comporta un sempre prezzo da pagare. Per la maggior parte, però, The Playlist di Netflix non segue questo schema.
Sceneggiata sulla nascita di Spotify, The Playlist vede un visionario assolutamente volenteroso nella figura di Daniel Ek, il programmatore che ha creato l’applicazione e che in breve tempo è diventato l’uomo più potente dell’industria musicale mondiale. Ma Spotify è un’azienda svedese e The Playlist è una serie svedese, il che significa una leggera dose di socialismo.
Il primo episodio, ad esempio, è incentrato su Ek, interpretato con estrema delicatezza da Edvin Endre di Fortitude. Quando lo incontriamo, si trova intrappolato in un lavoro per il quale si sente troppo bravo, passa il tempo con sua madre e gli viene detto che è troppo poco preparato per un lavoro in Google.
Lo vediamo trasformare questa frustrazione in un’occasione per creare Spotify, nonostante l’ostruzionismo dell’industria musicale, culminando con una sequenza straziante in cui lui e i suoi programmatori raccontano finalmente al mondo il loro magico giocattolo che permette di ascoltare qualsiasi canzone gratuitamente. Se si trattasse di uno show statunitense, questa sarebbe stata l’intera serie, tuttavia, nel momento conclusivo del primo episodio, un altro personaggio si rivolge alla telecamera e dice: “Ma che diavolo? Non è andata così”.
Immediatamente abbiamo una serie molto più interessante, The Playlist è composta da sei episodi, tutti raccontati dal punto di vista di qualcuno che è parte integrante del successo di Spotify. Il secondo episodio parla di un dirigente musicale che, terrorizzato dallo sgretolamento dell’industria che ama, si arrende e si mette a lavorare con Spotify.
C’è un episodio sul responsabile del codice dell’applicazione, che ha lottato per raggiungere una perfezione mai esistita prima. Un episodio sull’avvocato che ha gettato le basi per il compromesso con le etichette discografiche, un altro episodio sull’uomo che ha fatto girare il denaro.
Spotify non è stato creato da un uomo solo, un intero team è stato responsabile del suo successo e ognuno di loro ha la possibilità di esporre le proprie ragioni.
Si capisce perché i produttori abbiano voluto affrontare la serie in questo modo, Ek, almeno in questa rappresentazione, non è Mark Zuckerberg o Steve Jobs: è più ragionevole, più identificabile come essere umano, forse perché non è stata scritta da Aaron Sorkin, ma non c’è alcuno psicodramma violento che lo spinga. La cosa più intelligente è sempre stata quella di dividere la narrazione.
Tuttavia, questo approccio rende The Playlist una visione frammentaria e irritante, quando il thriller Rashômon di Akira Kurosawa ha usato questo trucco, ha funzionato perché si trattava di una storia di vita o di morte. In questo caso, significa che dobbiamo sorbirci ore e ore di cavilli sui dettagli più sottili del dispositivo che abbiamo sul telefono con cui ascoltiamo i podcast.
Il secondo episodio, ad esempio, si sforza di inserire l’ascesa di Spotify in un contesto culturale più ampio; vediamo le etichette discografiche morire sul nascere, cercando qualcosa – qualsiasi cosa – che le tenga a galla prima che Ek arrivi e mostri loro il futuro della più grande capacità di limitare i danni. In un contesto così ampio, è difficile vedere l’episodio in cui l’amministratore delegato si rende conto di essere autistico come qualcosa che non sia solo un riempitivo.
Spotify è una di quelle applicazioni – come la maggior parte dei prodotti realizzati da Meta – che le persone non si sentono mai del tutto entusiaste di utilizzare. La convenienza e la saturazione del mercato fanno sì che ogni volta che la apriamo siamo costretti a nascondere le nostre perplessità sullo sfruttamento dei musicisti, o forse non ci abbiamo mai fatto caso e poco ci interessa, ma in qualsiasi caso abbiamo la sensazione che qualcosa di disturbi.
Fortunatamente, è proprio su questo punto che si concentra l’episodio finale. Il personaggio di Ek che vediamo in questa occasione è Charles Foster Kane di Quarto potere, fragile e distaccato, talmente isolato nella ricchezza da aver perso di vista ciò che voleva che Spotify fosse. Al contrario, c’è una musicista di talento che non riesce più a pagare l’affitto attraverso le royalties che riceve dallo streaming. Si tratta di una nota necessaria per la serie, alla quale si vorrebbe dedicare più tempo.
Una cosa che non vi spoilererò è il finale della serie, questo perché è incredibilmente, cerebralmente strana, e chiunque si dedichi a tutte le sei ore di The Playlist merita di provare lo stesso sconforto che ho provato io. Nel complesso, The Playlist è un valido esercizio su quanto l’industria tecnologica ami corrompere le buone intenzioni. Sarebbe interessante vedere quindi la serie che Netflix deciderà di realizzare su se stessa.
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