La serie che racconta la vicenda di Jeffrey Dahmer, serial killer statunitense noto anche come il Mostro di Milwaukee, sta ormai spopolando tra il pubblico.
Disponibile su Netflix dal 21 settembre, l’opera è salita velocemente al 1° posto delle serie più viste del momento. Il suo successo fa sorgere tutta una serie di domande etiche e morali: è giusto raccontare queste storie anche ai danni di coloro che ancora soffrono per le perdite subite? Questa pagina buia della storia americana è infatti lontana nel tempo, ma non dimenticata.
La forza più grande di una storia è la capacità di aprire una finestra nell’animo umano e permetterci di sbirciare all’interno. Personaggi di fantasia vengono messi di fronte a situazioni estreme e reagiscono in maniera altrettanto forte, il tutto di fronte ai nostri occhi increduli. Cosa accade però quando i personaggi di una storia non sono solo dei personaggi, e le situazioni estreme presentate sono in realtà tragedie realmente accadute?
È con questo approccio che Dahmer: Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer comincia il proprio viaggio all’interno di una delle menti più oscure della storia degli Stati Uniti. Nella serie viene coperto un’arco temporale che va ben oltre il periodo degli omicidi. Vengono ricostruiti momenti dell’infanzia di Dahmer, la turbolenta convivenza con i genitori e si arriva ad episodi avvenuti dopo la sua morte nel 1994.
La mente è infatti uno dei fili conduttori della serie. O, più concretamente, il cervello. Il dramma inizia con il ritrovamento del cadavere di un opossum con il cranio frantumato sotto casa: il piccolo Jeffrey, che fino a qual momento pareva avere un carattere apatico, mostra interesse ed ascolta affascinato il padre spiegare le incredibili capacità del cervello; tre decenni dopo, il cervello di Dahmer viene conservato post-mortem per essere studiato, ma verrà distrutto in accordo alle sue volontà. Tutto parte da lì.
La vicenda non è raccontata con un ordine cronologico lineare. Piuttosto, Ryan Murphy ed Ian Brennan (ideatori e scrittori) scelgono di cominciare dall’arresto di Dahmer e poi tornare indietro e visitare vari momenti della sua vita. La scelta non è mai casuale, e con l’andamento delle puntate i pezzi che vediamo iniziano ad assumere il loro posto all’interno del puzzle. Oltre a questo, ogni episodio approfondisce qualche aspetto della storia, dalle persone coinvolte agli avvenimenti. Il montaggio contribuisce a rendere questi salti temporali fluidi e densi di significato.
È a Milwaukee che Dahmer consumò 16 dei 17 omicidi che commise. Secondo la testimonianza che Walter Farrell (professore all’Università del Wisconsin) diede nel 1991, la città era in “uno stato di sfacelo da almeno un decennio” al momento dell’arresto di Dahmer, e che la scoperta degli omicidi esorbitò il clima di tensione razziale già pesante a Milwaukee. Entra quindi in gioco la componente razziale.
Ben 14 vittime venivano da diverse minoranze etniche, e di questi 9 erano ragazzi neri; si aggiunga a questo che molte delle vittime erano gay, in un contesto sociale in cui essere gay o non essere bianchi significava essere ignorati, maltrattati, pregiudicati.
La storia di Dahmer è anche la storia del fallimento di un sistema. Vengono mostrati determinati avvenimenti in cui le forze dell’ordine avevano in mano tutti gli indizi o le accuse sufficienti per accertarsi delle attività del killer, ma decisero di ignorarle perché significava avere a che fare con neri o gay.
Molti episodi rappresentati fanno torcere lo stomaco dalla rabbia, come quello riguardante Konerak Sinthasomphone, la vittima più giovane di Dahmer, o quello dedicato alla vicina di casa Glenda Cleveland che numerose volte notificò la polizia riguardo comportamenti, rumori od odori sospetti. L’odio ed il pregiudizio della società americana verso le minoranze aiutarono senz’altro Dahmer a farla franca così a lungo.
Da un punto di vista più “tecnico”, la serie risulta valida sotto più aspetti. Spicca la performance attoriale di Evan Peters nei panni di un Jeffrey Dahmer distaccato, inquietante, che ci viene presentato a distanza e fuori fuoco, come un qualcosa che non è possibile comprendere ed identificare davvero. Richard Jenkins rappresenta un Lionel Dahmer tormentato per tutta la vicenda tranne che dopo l’arresto del figlio, quando riesce a fare i conti con sé stesso e a ricongiungersi con Jeffrey.
Al contrario della scrittura labirintica, la regia (divisa fra 5 registi) è più classica. I collegamenti di senso tra ciò che sentiamo e ciò che vediamo sono immediati, e lo sguardo si posa sempre sull’oggetto fulcro della scena. La fotografia ingiallita rimanda alle strade notturne di Milwaukee e all’appartamento dove Dahmer uccise la maggior parte delle sue vittime.
La sceneggiatura ha cercato di essere più fedele possibile ai fatti reali, pur tenendo conto che non si tratta di un documentario.
Lo show ha scaturito tutta una serie di proteste sui social. Anzitutto, l’etichetta “LGBTQ” che Netflix gli aveva assegnato è stata rimossa due giorni dopo la distribuzione. Ma soprattutto, Dahmer è stata realizzata senza il consenso delle famiglie delle vittime, anzi, senza che queste fossero nemmeno notificate (trattandosi di vicende pubbliche, legalmente non ce ne era bisogno).
Rita Isbell, sorella di una delle vittime, ha parlato di come lo show le abbia fatto rivivere il trauma daccapo. Ciononostante, il successo conseguito ha permesso a molte persone in tutto il mondo di conoscere il caso Dahmer. Addirittura, questo venerdì Netflix distribuirà il terzo documentario della serie Conversazioni con un killer di Joe Berlinger dedicato proprio a Jeffrey Dahmer.
È giusto ricordare anche le pagine più buie della nostra Storia. Ma è corretto anche, oltre che rispettare la legge, rispettare anche il dolore di chi ancora non è guarito, e forse non guarirà mai. E per questo non c’è “giusto” che tenga.
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