Cinema

Whiplash, un’altra storia di successo all’americana nel mondo del jazz. Recensione

Se c’è un film a cui paragoneremmo “Whiplash” di Damien Chazelle è la prima parte di “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick.

Il motivo? il rapporto violento, e quasi abusivo, che viene ad instaurarsi tra i due protagonisti della pellicola, Andrew Neiman (Miles Teller) e Terence Fletcher (J.K. Simmons), che ricorda terribilmente quello tra il sergente Hartman e il soldato Palla di Lardo.

Ma mentre la pellicola di Kubrick è una denuncia alla guerra e al sistema militare americano, il film del regista Damien Chazelle, uscito nelle sale nel 2014, è un film che getta lo sguardo sul mondo della musica e del jazz, anche se finisce per diventare tutt’altro. Sì, perché la musica è sicuramente importante in Whiplash, ma gioca un ruolo secondario rispetto al vero protagonista del film, ovvero il rapporto tra un maestro di musica e il suo allievo.

Un rapporto, dicevamo, che ricorda quasi una battaglia tra i due, che si districa nel tempo e che finirà per cambiare le vite di entrambi. Una sfida di sopravvivenza che vede il giovane Neiman dover far fronte al metodo d’insegnamento brutale di Fletcher, una sfida che finirà ben presto per diventare una questione personale tra i due.

Due personaggi poco amabili

Sono metodi d’insegnamento ai limiti della denuncia quelli adottati dal crudele Terence Fletcher, capace di ricorrere persino alla tortura psicologica nei confronti dei suoi allievi per spingerli a migliorare sempre più, solo nell’intento di capire se questi possano reggere o no la pressione e portarli a migliorarsi.

Un narcisista impenitente che vede del buono in ciò che fa, senza curarsi minimamente della salute mentale e fisica degli altri, e che giustifica le sue azioni nella ricerca del prossimo talento del jazz.

Terence Fletcher si rivela così uno dei migliori villain di sempre, grazie anche alla magistrale prova dell’attore J.K. Simmons premiato non a caso con un oscar al “miglior attore non protagonista” nel 2014.

Come sua controparte abbiamo il giovane Neiman, un ragazzo introverso e gentile ossessionato dall’idea di diventare il migliore batterista della sua generazione. Un’ossessione che lo trasforma e che lo porta a rinunciare a tutto pur di raggiungere la perfezione: dall’amore alla sua salute, in una spirale continua nell’oblio che lo consuma lentamente e che viene accentuata dal malsano rapporto con l’insegnante.

Due personaggi pieni di difetti e con cui è difficile empatizzare: Fletcher per il suo cinismo, mentre Neiman per la sua continua ossessione di voler diventare il numero uno.

Un racconto di formazione a ritmo di musica

Whiplash può essere definito come un film di formazione, con un protagonista che cambia nel tempo, anche se non in meglio. Un percorso che vede Andrew Neiman passare da timido e gentile a sleale ed opportunista, il tutto nel nome della musica e della sua passione per questa. Un viaggio che ci mostra come a volte sulla strada verso il successo, si possa rinunciare a tutto, anche a sé stessi, pur di raggiungere la gloria.

Il film ci aiuta a percepire le emozioni del batterista interpretato da Miles Teller grazie all’ottima regia di Damien Chezelle che indugia al meglio sulla fatica, sul sudore e il sangue che il ragazzo versa durante il suo percorso.

Nel corso della pellicola regia e montaggio vengono usate sapientemente andando a fondersi con la musica che fa da sfondo alle vicende tra i due protagonisti. Sì, perché sebbene la musica sia apparentemente centrale nella trama del film si rivela invece essere solo un macguffin, un espediente narrativo usato dalla storia per raccontarci del rapporto tra allievo e maestro.

Da sottolineare anche l’apporto della fotografia (Sharone Meir) che sposta l’obiettivo dai grattacieli e dalle luci di New York preferendo i suoi sobborghi e i suoi spazi offuscati, sicuramente più adatti e funzionali alla narrazione della pellicola.

Una tipica parabola americana

“Whiplash” è in tutto e per tutto un film all’americana che ci vuole mostrare quel modo tutto americano di vedere la vita. La filosofia che sottende a questo film è chiaramente quella del no pain no gain, del dare tutto e sacrificare tutto nella speranza di raggiungere il successo senza guardare in faccia a nessuno, nemmeno a sé stessi. L’unica cosa che conta è il successo, non importa come ci arriveremo e cosa dobbiamo sacrificare per ottenerlo.

L’ossessione e il sacrificio di sé stessi vengono venduti come qualcosa di positivo, quasi a giustificare i modi adottati dal personaggio di Fletcher, perché aiuta il talento di Neiman a venire a galla nell’attimo finale.

In quest’ottica, parafrasando una nota canzone, “uno su mille ce la fa” e l’essere “secondi” è qualcosa di umiliante, una sconfitta, anche se la strada per raggiungere il risultato è stata altrettanto tortuosa e piena di sacrifici quanto quella del “numero uno”.

Una filosofia questa che però, come ci insegna la stessa cultura americana, può portare all’autodistruzione se l’ossessione per quell’irraggiungibile “balena bianca” ci porterà a spingerci verso confini invalicabili per noi stessi.

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