«Tutti i giorni eseguo a mano 10.000 calcoli di radici quadrate e geometria analitica. Ci sono venti donne nere nel gruppo di calcolo ovest e fanno la loro parte per il Paese. Perciò si: fanno fare delle cose alle donne alla NASA e non è perché indossiamo le gonne, è perché indossiamo gli occhiali».
America anni Sessanta, tre donne afroamericane lottano per vedersi riconosciuto il loro diritto di pensare e di esistere. Attorno a questi elementi si dispiega la trama de Il diritto di contare costruendo l’universo reale e storico del secondo dopoguerra americano. Tre donne, tre matematiche, tre esponenti della popolazione emarginata degli Stati Uniti.
Il diritto di contare, film statunitense del 2016 diretto da Theodore Melfi, coautore della sceneggiatura insieme a Allison Schroeder, ha ricevuto tre candidature ai Premi Oscar come miglior film, migliore attrice e migliore sceneggiatura, e due ai Golden Globe, tra cui quello per la migliore colonna sonora originale. Il cast include Taraji Penda Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst e Jim Parsons.
È tratto dal libro omonimo della scrittrice Margot Lee Shetterly che ha raccontato la storia vera della fisica, matematica e scienziata afroamericana Katherine Coleman e delle sue colleghe Dorothy Vaughn e Mary Jackson.
La pellicola racconta la lotta combattuta dagli Stati Uniti per conquistare per primi lo spazio, affermandosi nello scenario mondiale e dimostrando la loro superiorità sulla Russia, ma è soprattutto il racconto della battaglia per i diritti combattuta da tre donne afroamericane, il cui contributo è stato determinante alla NASA per il lancio in orbita dell’astronauta John Glenn. La loro non è solo una lotta personale: aiutando se stesse aiuteranno le altre donne, tutta la comunità afroamericana e l’America in generale. La protagonista è Katherine, interpretata magnificamente da Taraji P. Henson.
Fin dall’infanzia Katherine ha un dono, una capacità di pensare e ragionare del tutto diversa dalla norma. Questo dono le permetterà di frequentare la scuola in un periodo storico in cui ai bambini afroamericani non era concesso studiare.
La pellicola prende l’avvio, infatti, nel 1926 a White Sulphur Springs, West Virginia; Katherine ha appena ottenuto una borsa di studio per una ottima scuola, dove potrà sviluppare le sue potenzialità. Con un salto temporale di 35 anni si arriva al 1961, in piena guerra fredda, nel conflitto ideologico tra Stati Uniti e Russia per la conquista dello spazio. Il fotogramma che ritrae Katherine bambina in macchina con i genitori, in viaggio verso la nuova scuola, viene sostituito dall’immagine di Katherine adulta mentre si reca con due amiche e colleghe sul posto di lavoro.
L’auto sulla quale viaggiano, ha un guasto; mentre cercano di riparare il danno, vengono raggiunte da un poliziotto. Il timore provato dalle donne e il tono con cui il poliziotto si rivolge loro, fanno subito comprendere la realtà segregazionista e razzista dell’America degli anni Sessanta. Quando le donne affermano di lavorare alla NASA il poliziotto si mostra sorpreso; dalla diffidenza nei loro confronti passa ad un atteggiamento di rispetto dovuto al fatto che stanno dando un contributo agli Stati Uniti per battere i Russi.
Sono gli anni del primo volo spaziale umano del cosmonauta sovietico Jurj Gagarin. Il programma spaziale americano non può rimanere indietro e deve cercare di raggiungere lo spazio, lanciando in orbita l’astronauta John Glenn. Il direttore delle operazioni spaziali, Al Harrison (interpretato da Kevin Costner), cerca quindi un matematico che comprenda la geometria analitica per calcolare le traiettorie di lancio.
Dorothy Vaughn (interpretata da Octavia Spencer), supervisore del gruppo di donne di colore della NASA, consiglia per quel lavoro la collega Katherine Coleman.
Assegnata a una squadra che sta calcolando le coordinate di lancio e atterraggio di un razzo Atlas, Katherine si trova a fare i conti, però, anche con le discriminazioni. Infatti, nonostante la NASA si mostri moderna ed evoluta, si rivela essere in realtà razzialmente segregata e stratificata per genere. Il razzismo non dipende dalla cattiveria dei singoli bianchi, ma è piuttosto un modo di pensare comune e ormai radicato nella società.
La protagonista è la prima donna di colore a lavorare nel gruppo spaziale e ad entrare in quell’edificio, dotato di bagni riservati ai soli bianchi. Katherine viene da subito trattata con diffidenza e ostilità dai colleghi, che non le permettono neanche di usare la stessa caffettiera. Solo con il passare del tempo, grazie alle sue doti intellettive e alla sua capacità di risolvere complesse operazioni matematiche, ottiene il rispetto di Al Harrison.
Harrison sembrerebbe l’unico bianco, insieme all’astronauta John Glenn (interpretato da Glen Powell), a non comportarsi in modo razzista: il suo unico obiettivo è raggiungere il successo della missione, senza interessarsi del colore della pelle di chi consente di raggiungerlo.
Accanto alla vita lavorativa delle protagoniste scorre di pari passo la loro vita personale; alla trama principale si affiancano così trame secondarie, come quella che tratta della storia d’amore tra Katherine, vedova con tre figlie, e un ufficiale militare da poco tornato a casa, Jim Johnson (interpretato da Mahershala Ali).
Posti riservati, edifici riservati, servizi igienici riservati, caffettiere riservate per capacità intellettive uguali, o in alcuni casi superiori, proprio perché le difficoltà, si sa, aguzzano l’ingegno.
Le tre donne si trovano ad affrontare diverse sfide, scontrandosi con la normalità della supremazia bianca. I loro tre capi rappresentano figure diverse dell’America di quegli anni.
Il capo di Dorothy, Vivian Mitchell (interpretato da Kirsten Dunst), è una giovane donna autoritaria che si comporta in modo razzista senza neanche rendersene conto, celando i propri pregiudizi dietro le buone maniere.
Il capo di Mary, Karl Zielinski (interpretato da Olek Krupa), è un ingegnere ebreo di origini polacche dalla mentalità aperta, che invita Mary a fare domanda per diventare capo ingegnere.
Il capo di Katherine è Al Harrison, ma l’ingegnere capo è Paul Stafford (interpretato da Jim Parsons), il cui razzismo si traduce in un atteggiamento di ostile diffidenza nei confronti di Katherine.
Le scoperte della NASA procedono di pari passo con l’avanzare della tecnologia: l’arrivo di un gigantesco mainframe IBM, un elaboratore centrale che effettua i calcoli in pochissimi secondi, minaccia di far perdere il lavoro al gruppo di calcolo. Per evitare ciò Dorothy impara a programmare il computer e insegna il nuovo linguaggio di programmazione alle donne del suo gruppo, in modo da poter essere riassegnate a un’altra unità.
In molti casi i pregiudizi sono ormai radicati negli stessi neri, il marito di Mary non vuole che la moglie provi a diventare ingegnere, convinto che una donna afroamericana non possa aspirare a un ruolo elevato. La donna, del resto, si imbatte nei divieti imposti dalla legge quando cerca di seguire corsi di fisica di livello universitario destinati solo a uomini bianchi.
Tra proteste per ottenere maggiori diritti e segregazioni razziali, proseguono i test per lanciare i missili in orbita e vengono effettuati i due voli spaziali di Alan Shepard e Gus Grissom.
Katherine si dimostra preziosa per la riuscita della missione di Glenn, creando un’elaborata equazione per calcolare con precisione il punto di rientro della capsula spaziale.
Il diritto di contare riesce a raccontare in modo appassionante una vicenda realmente accaduta, senza idealizzarla, facendo comprendere come il problema del razzismo non sia stato risolto, ma solo mitigato all’interno di un ambiente ristretto e chiuso come quello della NASA.
In guerra gli Stati Uniti avevano fatto ricorso a tutte le loro forze, reclutando anche i cittadini americani emarginati che per l’occasione diventavano a pieno diritto statunitensi, anche se poi nella realtà dei fatti continuavano a vedersi negati i diritti civili. Durante la guerra fredda la situazione non fu diversa: la NASA si trovò ad assumere anche le donne e “addirittura” donne afroamericane, salvo poi relegarle al ruolo di “computer invisibili” in edifici appartati e separati da quelli principali.
Le carriere lavorative delle fisiche e matematiche Katherine, Mary e Dorothy diventano una celebrazione travolgente della meritocrazia e della perseveranza.
L’attenzione dello spettatore è concentrata sulla storia, che risulta ben raccontata, e sul suo sviluppo. La bravura del cast rende suggestivo e coinvolgente il film: la loro genialità nel recitare restituisce la genialità delle vere matematiche che hanno fatto superare disuguaglianze di razza e genere in un periodo in cui erano considerate la normalità.
La morale educativa e la potenza narrativa rendono la pellicola adatta a tutti, in grado di offrire un piacevole intrattenimento.
È la storia di una lotta per la sopravvivenza e per l’affermazione contro i pregiudizi di genere e di razza, pregiudizi a volte intrisi nella mente degli stessi sopraffatti. Un ciclo dei vinti alla rovescia, un’epopea americana che parte dal basso, una volontà di riscatto individuale e allo stesso tempo collettiva, per dare voce a tutti coloro che voce non hanno.
Il titolo originale della pellicola, Hidden Figures, pone al centro dell’attenzione le figure nascoste, alle quali la storia non ha riconosciuto il giusto contributo agli eventi.
Particolarmente felice la traduzione in italiano, Il diritto di contare, che fin da subito opera una scelta. Alle “figure nascoste” non si deve riconoscere l’importanza come se questa fosse un dono, ma perché quelle figure hanno il diritto ad essere riconosciute come tali. La riuscita del titolo italiano non si basa solamente sull’utilizzo della parola “diritto”, dalla forte connotazione semantica; si basa soprattutto sul gioco linguistico evocato dal termine “contare”, che a seconda dell’uso transitivo o intransitivo assume significati diversi.
Da un lato il vocabolo rimanda al concetto matematico del valutare quantitativamente un insieme attribuendo i numeri in ordine progressivo agli elementi che lo compongono, nonché, in maniera più estesa, al saper eseguire le operazioni aritmetiche. Dall’altro lato il verbo ha un significato metaforico che rimanda all’avere un determinato valore o importanza: l’importanza che tutti gli esseri viventi hanno il diritto di vedersi riconosciuta.
La storia narrata sui libri, è risaputo, non è altro che il racconto di eventi accaduti nel passato. La letteratura, da Walter Scott a Alessandro Manzoni, ci ha, però, insegnato che la Storia con la “s” maiuscola è in realtà un insieme di “storie” il cui corso non è stato influenzato solo dalle grandi personalità, ma anche dalle persone comuni.
Ed è proprio ciò che Il diritto di contare (o in questo caso ancora meglio, Hidden figures) ci ricorda: ogni scoperta e ogni successo umano non sono dovuti alle azioni di una sola persona, il cui nome viene riportato sui libri e ripetuto di generazione in generazione, ma è il risultato di un insieme spesso numerose di menti geniali che hanno fatto sì che quelle idee divenissero realtà. Per questo non dovremmo mai dimenticare che le “figure nascoste” hanno il diritto di contare e di essere ricordate.
Il film delinea una realtà difficile da comprendere in un mondo dominato da computer e tecnologie molto sviluppati e riporta indietro a un periodo in cui il calcolatore più potente era (e del resto lo è ancora) la mente umana. In fondo la pellicola è la celebrazione dell’ingegno umano, di menti brillanti che hanno guardato «oltre i numeri, li hanno guardati intorno, attraverso, per risposte a domande che non sappiamo nemmeno formulare, matematica che ancora non esiste. Senza non andremo da nessuna parte, non voleremo nello spazio, non ruoteremo intorno alla Terra e non toccheremo la Luna e nella mia mente io sono già là».
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