Les Miens è il film diretto da Roschdy Zem, in concorso a Venezia 79 e racconta la storia di un uomo e della sua famiglia la cui vita cambia dopo una botta in testa.
Moussa è un uomo premuroso, altruista e sempre disponibile con la sua famiglia, a differenza di suo fratello Ryad, presentatore televisivo di successo, criticato da parenti e amici per il suo egocentrismo che lo fa vivere in una bolla nella quale non si cura di ciò che gli accade nella vita. Ryad non ascolta mai tanto da non notare i problemi che ciascuno dei parenti affronta quotidianamente e da trascurare la sua compagna.
Solo Moussa, che prova grande ammirazione per lui, lo difende. Un giorno però una caduta accidentale provoca a Moussa un grave trauma cranico: ormai irriconoscibile, l’uomo parla senza filtri svelando agli amici e alla famiglia brutali verità difficili da accettare, e finisce per litigare con tutti, tranne che con Ryad, l’unico che finirà con lo stargli accanto.
Se da principio ad avere bisogno di aiuto è il più debole, paradossalmente l’infermità di Moussa sarà terapeutica per Ryad, il quale rivedrà il proprio modo di stare al mondo e di relazionarsi con i parenti, privilegiando i sentimenti.
Come ho detto Les Miens (letteralmente I miei) mi è parso un Parenti serpenti alla francese, ma decisamente con meno mordente rispetto al film di Monicelli dove, come ricorderete, ne succedono di ogni e un problema in apparenza risolvibile fa venire a galla rancori e segreti. Qui di segreti non ce ne sono, o per lo meno non sono degni di nota, insomma non ci fanno saltare dalla poltrona ma di sicuro i tipici rancori tra fratelli non mancano.
È risaputo che nel momento in cui sorge un problema, di solito di salute, e si deve andare incontro a un parente in difficoltà di salute iniziano a fioccare problemi, litigi, discussioni e questioni in sospeso di un’intera vita che possono anche rovinare in poco tempo i rapporti. Sfido chiunque a dire che non gli è mai capitato.
Siamo dunque nel classico dramma borghese e sappiamo anche che questo genere è la comfort zone del cinema francese e, a dirla tutta, anche la mia. Il film è quindi girato per la maggior parte in interni e punta tutto sui dialoghi, offrendo allo spettatore un “gruppo di famiglia in un interno”, dove però rispetto all’omonimo film di Luchino Visconti i problemi sono meno drammatici e si gioca tutto sull’ironia, perché in questo caso le risate ce le facciamo, soprattutto quando i filtri di Moussa cadono per lasciare spazio a una disarmante sincerità.
Il film di Roschdy Zem mi ha fatto riflettere sul modo di fare cinema dei francesi, piuttosto vicini alla maniera di fare cinema in Italia ma con una spiccata tendenza a prediligere il dialogo e mantenere tutto piuttosto piatto. Mi spiego, in questo film mi sembra di riconoscere una maniera tutta francese di raccontare storie attenendosi a quanto accaduto ai personaggi limitandosi a narrarlo per loro bocca.
Con i dialoghi sempre molto veloci e serrati i protagonisti ci spiegano tutto, non ci lasciano indietro nella storia, non vi troviamo buchi di trama (almeno nei film scritti bene) e non ci sono quasi mai colpi di scena o momenti sensazionali è tutto lineare.
Perché in effetti, in questo film e in molti altri simili, non è importante per il regista stupire ma raccontare e raccontare bene qualcosa che ci sta vicino e che può accadere facilmente anche nelle nostre famiglie. In pratica non si parla di supereroi.
Ecco perché ciascuno dei personaggi che troviamo in questo film rappresenta una diversa tipologia umana, c’è insomma una varietà di personaggi sociali ma anche familiari.
Tutti abbiamo avuto in famiglia la persona che si occupa di tutti, l’indifferente, quello che pensa solo al lavoro, il parente bizzarro che dice cose fuori dal comune, il genio di famiglia e così via. Sarà impossibile non ritrovare nei litigi tutti umani di questa famiglia qualcosa che non abbiamo già vissuto a nostra volta.
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