White Noise apre la 79° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Recensione
La 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia lo scorso 31 agosto ha aperto il concorso ufficiale Venezia79 con il film di Noah Baumbach, White Noise tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo.
Raccontare il film tentando di riassumerne la trama è complesso dal momento che sono davvero tante le linee narrative che si aprono e, confesso, riuscire a seguirne la complessità non è semplice. Driver e Gerwig sono rispettivamente Jack e Babette Gladney lui docente universitario e massimo esperto di Adolf Hitler, lei insegnante di ginnastica, hanno tre figli e sono gli anni di Reagan in America, la loro sembra essere una normale famiglia americana ma poco alla volta si sveleranno tutti i segreti della coppia.
Jack e Babette si amano eppure alcune ombre volteggiano sinistre su di loro e tutto questo viene accompagnato da un costante senso di catastrofe imminente, preannunciata da un personaggio secondario interpretato da Don Cheadle che interpreta il professore Murray Siskind che apre il film con una lezione sugli incidenti stradali e sulle catastrofi in generale.
Il senso è: ci piace guardare gli incidenti perché ci fanno sentire vivi e perché essi, paradossalmente, celebrano la vita e, quindi, nell’assistere a una catastrofe si prova una sorta di piacere, addirittura parossistico.
Nel momento stesso in cui ascoltiamo le parole di Cheadle è come assistere alla cronaca di una morte annunciata, un evento accadrà senz’altro.
Un incidente stradale, il riversamento di rifiuti tossici nel suolo a pochi chilometri dal centro abitato e una nube tossica e nera costringono la comunità a evacuare e questo evento è solo una minima percentuale di tutto ciò che accade in White Noise, perché molto presto dal problema generale, quello dell’inquinamento che si fa metafora dell’attuale crisi climatica, passando per i problemi della comunità totalmente assuefatta dal consumismo e la smania di acquistare sempre più forte, si arriva poi al nocciolo della questione: il sistema famiglia qui definito come “la culla della disinformazione”.
Per la mole di argomenti che qui vi troviamo potremmo parlare per ore di White Noise, ma partiamo proprio dal titolo che significa rumore bianco. Il rumore bianco di fatto contiene tutte le frequenze dello spettro del suono udibile, in egual misura: per questo, è detto anche rumore statico e, poiché copre più bande del suono, a volte viene definito “rumore a banda larga”.
Di solito si tende a paragonare il rumore bianco all’elettricità statica che proviene da una radio o una televisione non sintonizzate. Il rumore bianco viene associato anche a quella sensazione che talvolta si può provare di sentire tutte le emozioni insieme e ne consegue un senso di perdizione che può sfociare nella paura.
E veniamo quindi al cuore di tutto, in questo film si parla di paura e nello specifico della paura di morire, quel senso di panico e puro terrore che si prova in quei momenti di coscienza che possono capitare a tutti e che si manifestano nei modi e nei momenti più disparati: la presa di coscienza che siamo mortali, che prima o poi tutto finisce, anche noi.
È tutto qui, ogni azione e perfino il non agire dei personaggi ruota intorno a questa cosa, infatti Jack (Driver) che nel film ha anche il ruolo di voce narrante ripete spesso che “bisogna godersi i giorni senza meta”.
Forse la sintesi di tutto è proprio questa ma a quanto pare la paura per certe cose arriva comunque e, l’umanità sembra preferire ignorare le catastrofi a un passo da sé per continuare a far spese nei supermercati e nei centri commerciali.
Guardare questo film significa trovarsi a riflettere sul nostro comportamento e sul nostro modo di abitare il pianeta, la nube tossica di cui sopra fa inevitabilmente pensare al Covid e agli anni appena trascorsi che si sono portati dietro inevitabilmente proprio quel senso di “catastrofe annunciata” che si percepisce continuamente in questo film.
Veniamo ora alle dolenti note, è un film tratto da un romanzo e per quanto mi riguarda questo è già un limite. Adattare un romanzo per il mezzo cinematografico e una cosa davvero complessa e sono davvero pochi i registi che ci sono riusciti.
In questo caso Baumbach che mi aveva davvero emozionata con Storia di un matrimonio, presentato sempre qui a Venezia nel 2019, questa volta non mi ha trasmesso le stesse emozioni, non sono mai entrata completamente nel film e dal mio punto di vista si tiravano troppi fili e alla fine non se ne viene a capo in maniera soddisfacente.
Alcune cose vengono solo accennate, su altre ci si sofferma anche troppo e quella che credi essere la materia centrale finisce col diventare una delle tante situazioni sul piatto.
Per non parlare del fatto che in questo film ci sono almeno tre falsi finali, insomma troppe idee, anche buone ma nessuna sviluppata fino in fondo. Penso si tratti del classico caso di film che divide le opinioni, sia quelle del pubblico che quelle della critica e quindi sta a voi trarre le vostre conclusioni.