Elvis, il biopic di Luhrmann fa un’interessante scelta narrativa e spezza il cuore. Recensione

Lo splendido splendente biopic di Luhrmann, Elvis, rappresenta la storia del Re narrata dal punto di vista di un (finto) colonnello, una scelta narrativa interessante.

Elvis

Ci sono stati numerosi film che hanno raccontato la vita di Elvis Presley, alcuni interpretati da mostri sacri come Kurt Russell e Jonathan Rhys Meyers (fino a oggi il mio preferito). È difficile scavare sotto la superficie di questa icona musicale che morì all’età di 42 anni, nel 1977, in un involucro rigonfio e imbottito di farmaci che solo vagamente ricorda quel dinamico e sconvolgente performer che era un tempo.

Nella morte è possibile dire che Elvis sia diventato più grande che nella vita, con il suo repertorio mai uscito dalle scene, gli innumerevoli imitatori, tutti quei biopic già citati, gli infiniti libri. Quello difficile da immaginare, forse in Italia più che in America, era quel rapporto unico che risiedeva tra il Re e il suo unico manager, il colonnello Tom Parker.

Tuttavia, dopo aver visto l’ultimo biopic del regista Baz Luhrmann, intitolato semplicemente Elvis, si riesce ad avere finalmente un punto di vista diverso sulla vera storia incentrata su Parker, così come la inquadra Luhrmann, l’imbonitore di fiere divenuto una sorta di burattinaio che controllava i fili della carriera di Presley.

La meraviglia visiva e sonora del film di Luhrmann inizia e finisce nel presente, con Parker che si guarda indietro, tutto è nelle mani di Tom Hanks che lo interpreta, un ritratto inquietantemente memorabile e persino rischioso, dato che Hanks si impegna a fondo nel cercare di diventare questo strano uomo, che sosteneva di essere nato negli Stati Uniti, prestando persino servizio nell’esercito dopo essere immigrato illegalmente in America.

Elvis

In realtà, quello che ho scoperto, è che Parker era nato nei Paesi Bassi all’anagrafe Andreas Cornelis van Kuijk, rubando poi il nome Tom Parker al suo reclutatore dell’esercito e aggiungendovi successivamente l’appellativo di “colonnello” quando gli fu dato il titolo onorifico fasullo (ma del tutto ufficioso) da un governatore della Louisiana, grato per l’aiuto in una campagna elettorale.

Quando il film si apre alla fine degli anni Novanta, verso l’ultimo periodo della vita di Parker, sentiamo la sua voce che sfata le teorie secondo cui sarebbe stato lui, e la sua ambizione, a uccidere Elvis, mentre in realtà vole assicurare a tutti che è stato lui ad aver creato Elvis. Il film diventa quindi in gran parte coerente con la scoperta da parte di Parker dell’allora sconosciuto Presley (Austin Butler) che si dimena sui fianchi in modo sempre più sessuale, mentre le donne del pubblico vanno in estasi.

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La macchina da presa di Luhrmann vuole concentrarsi apposta sulla figura di Parker, che percepisce chiaramente di trovarsi davanti alla sua prossima conquista, la grande occasione. Il luogo è quello in cui si esibisce la star del country Hank Snow e il prossimo spettacolo in programma è Little Jimmie Rodgers Snow (Kodi Smit-McPhee), a cui Parker ha fatto da assistente. Dopo aver messo le grinfie su Elvis, Parker si disinteressa di Snow, sa dove lo porterà il suo destino.

Luhrmann, sorprendentemente, fa sì che la storia si svolga per lo più come i biopic, un resoconto quasi wikipediano dei momenti salienti dell’ascesa di Presley, del suo periodo da superstar, del suo ritorno dopo un periodo difficile, degli anni di Las Vegas e del suo terribile declino, quasi tutti manipolati e architettati da Parker. Tuttavia, nelle mani di Luhrmann nulla è convenzionale ed è chiaro che il fascino del regista per l’uomo dietro la star è stato l’impulso per questo film.

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Anche se la pellicola dura 2 ore e 39 minuti, Luhrmann (che ha scritto la sceneggiatura con Sam Bromell, Craig Pearce e Jeremy Doner) non perde tempo, ci sono i primi anni della grande fama, l’arruolamento nell’esercito, una rapida carrellata della carriera cinematografica di Elvis, iniziata in modo promettente con Jailhouse Rock (Il delinquente del rock and roll) e King Creole (La via del male), per poi riproporsi in una serie di musical con ragazze e canzonis, abbiamo persino il progetto ipotetico di lavorare con Barbra Streisand in A Star Is Born, un’idea stroncata da Parker.

Una delle sequenze migliori del film ruota attorno allo speciale televisivo del 1968 sul “ritorno”, in cui Elvis – in un completo di pelle nera e tornando alla musica che lo aveva creato – riaccese la sua carriera dopo che Hollywood si era stancata della formula in cui Parker aveva intrappolato il ragazzo.

Fedele alla tradizione, Parker voleva un Elvis più convenzionale in questo speciale; voleva che indossasse un maglione natalizio e cantasse un paio di brani di Natale, ed è così che ha venduto lo spettacolo. Tuttavia, è stato superato da Presley stesso e dal regista dello speciale Steve Binder (Dacre Montgomery), che ha usato la piattaforma per riportare il Re sul suo trono ignorando gli ordini del “colonnello”.

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C’è una sfumatura persistente sul fatto che se Presley si fosse attenuto ai suoi istinti naturali, invece di permettere a Parker di assecondare i propri, le cose sarebbero andate molto diversamente, sembra incredibile pensare che Elvis non sia mai uscito dagli Stati Uniti. La natura astuta di questo film non è solo quella di presentare l’uomo dietro il mito, ma anche di mostrare quale fosse la macchina che stava davvero dietro il fenomeno di Elvis e chi l’avesse fatta funzionare.

Butler, precedentemente noto al cinema per aver interpretato Tex Watson in C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino, è la scelta ideale per interpretare Presley sia dal punto di vista visivo che canoro, guardandolo in lingua originale si scopre che è proprio lo stesso attore che nel primo tempo canta durante la prima epoca di Elvis (in seguito sostituito dai brani del vero Elvis negli anni successivi).

Forse più di chiunque altro abbia affrontato seriamente il ruolo di Elvis, Butler ci riesce in modo entusiasmante, soprattutto nella prima parte del film, con un ritmo autentico che ci fa chiedere quali vette più alte Elvis avrebbe potuto scalare se non avesse ceduto al lato oscuro della sua stessa fama.

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Hanks si impegna a fondo e riesce a cogliere l’enigma di Parker, si immerge nel personaggio, mostrandoci sottilmente un viscido manipolatore le cui decisioni sulla carriera di Presley potrebbero anche essere collegate in parte alla necessità di nascondere il proprio losco passato e la propria dipendenza dal gioco d’azzardo.

Tra i non protagonisti, Olivia De Jonge è meravigliosa ma poco sfruttata nel ruolo di Priscilla Presley, le rendono giustizia i momenti in cui affronta con rabbia Elvis per la sua crescente dipendenza dalle droghe. Helen Thomson interpreta bene la madre Gladys facendo capire l’attaccamento tra i due. Tra gli artisti neri che hanno chiaramente influenzato Elvis, Kelvin Harrison Jr. nel ruolo di B.B. King e Alton Mason in quello di Little Richard hanno il loro giorno di gloria. Anche Richard Roxburgh, nel ruolo del padre Vernon Presley e Luke Bracey in quello di Jerry Schilling, trovano i loro momenti chiave nella cerchia ristretta di Presley.

Dal punto di vista tecnico, il film è brillante come si potrebbe pensare che sia una produzione di Baz Luhrmann, compresi i costumi e il design della produzione del premio Oscar Catherine Martin. Gli aspetti musicali sono superbi sotto ogni aspetto, la scelta di fondere canzoni del passato con musicalità moderne è un colpo da maestro per avvicinare la storia al pubblico dell’oggi, senza però essere mai invadente.

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C’è anche una toccante sequenza con filmati reali del vero Elvis che si esibisce nell’ultimo mese della sua vita, ovviamente sempre sul palco di Las Vegas, indossando quella luccicante uniforme bianca radicata ormai nel nostro immaginario, quel viso gonfio e nascosto dietro gli occhiali scuri. Praticamente aveva vissuto la sua vita ai piani alti dell’Hilton International di Las Vegas, senza alcuna via d’uscita. Fa male al cuore.

La canzone successiva, un altro successo di Presley, “Suspicious Minds”, inizia paradossalmente con un verso che potrebbe riguardare proprio l’uomo, la leggenda, se stesso: “Well don’t you know I’m caught in a trap. I can’t get out”. (Non sai che sono in trappola? Non posso uscire).