Le otto montagne, film diretto da Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch e tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega nel 2017, è in concorso nella selezione ufficiale al Festival di Cannes interpretato da Luca Marinelli e Alessandro Borghi.
Il film è la storia di un’amicizia lunga una vita che inizia dall’infanzia dei due protagonisti per arrivare fino alla maturità.
Al centro della storia ci sono, infatti, Pietro e Bruno che si conoscono da bambini nel 1984 e restano amici, tra lunghe presenze e lunghe assenze, per tutta la vita. Pietro è un ragazzo di città, che si reca in montagna solo per trascorrere le vacanze estive, mentre Bruno è un pastore e tra le montagne ci vive tutto l’anno. I due si conoscono fin da bambini, quando passavano le giornate in mezzo alle montagne per lunghe passeggiate, stringendo una forte amicizia.
Il film è di quelli che ti va sotto pelle lentamente e tu finisci per commuoverti e voler bene ai personaggi senza rendertene conto.
In alcuni passaggi è sicuramente lento e si prende tutto il tempo per raccontare la storia per cui forse alcuni spettatori meno allenati potrebbero trovare difficoltà nel seguirlo, eppure per quanto mi riguarda ci sono dei momenti davvero commoventi e quasi tutti quelli in cui mi sono ritrovata a piangere erano legati alla figura paterna, il perno della storia di amicizia tra i due protagonisti.
Il papà di Pietro, interpretato da Filippo Timi, avvia con il figlio una tradizione di passeggiate in montagna, passeggiate che vengono da quest’ultimo bruscamente interrotte durante l’adolescenza. La prima e unica scalata in montagna alla quale partecipa anche Bruno, segna uno spartiacque nella storia, quella è la prima e ultima volta che si trovano tutti e tre insieme in montagna.
Quando poi Pietro decide di lasciare gli studi e prendere la strada della scrittura la frattura con il padre diventa insanabile ed è qui le strade si dividono per poi ricongiungersi lì in montagna dove tutto è cominciato e dove Pietro farà un percorso di ricerca su se stesso e di metaforico ricongiungimento con il padre.
Come in tutte le storie di amicizia sapientemente narrate anche qui vediamo amore sconfinato per l’altro che diventa un complice, litigi, incomprensioni e anche periodi di silenzio perché solo dai veri amici a volte si sente il bisogno di prendersi una pausa.
Sarò superflua nel dire che Borghi e Marinelli sono perfetti insieme e questo lo abbiamo già visto con Non essere cattivo di Claudio Caligari (2015) oltre al fatto che sono tra i migliori interpreti della loro generazione.
Il film mi ha riportato a diversi riferimenti cinematografici, uno di questi per esempio è La leggenda del pianista sull’Oceano di Giuseppe Tornatore (1998) nella figura di Bruno (interpretato da Alessandro Borghi) che non sa concepire un mondo al di fuori della sua montagna e che può essere se stesso solo nelle cose che ama fare, proprio come Novecento, il protagonista del film di Tornatore, anche quello tratto da un testo pre esistente, Novecento di Alessandro Baricco.
I percorsi dei due personaggi sono complementari e allo stesso tempo opposti, sono la rappresentazione di una storia che si narra il Nepal secondo la quale il mondo è composto da otto montagne (le otto montagne del titolo appunto) e otto mari e c’è una grande montagna al centro. La domanda che si pongono nella storia è se sia più saggio e ha imparato di più chi ha scalato la montagna al centro o chi ha scalato le otto montagne.
I due protagonisti rappresentano rispettivamente il nomade (Pietro) e il sedentario (Bruno), due tipologie di essere umano differenti ma appunto complementari.
La montagna è spesso protagonista del cinema e non sono poche le pellicole in cui la ritroviamo e anche in questo caso la sua maestosa presenza diventa un altro personaggio, la presenza muta che affianca la vita dei personaggi. Una montagna di cui si prediligono le altitudini piuttosto che le maestosità.
L’unica nota negativa è il fatto che all’interno del film ci sono troppi finali, almeno tre potrebbero essere i momenti in cui chiudere la storia, e così nel corso della visioni più volte ci ritroviamo a provare quella sensazione di chiusura per poi vedere un altro filo tirato e così via fino alla vera conclusione.
Ciò è dovuto senz’altro all’opera di partenza, dal momento che stiamo parlando di un libro molto denso, ma appunto per questo nella trasposizione cinematografica avrei tagliato ancora.
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