Questo dramma in otto parti analizza l’immoralità e l’avidità che hanno portato all’ascesa dell’OxyContin, “antidolorifico miracoloso” – ma sta provando ad affrontare troppe cose?
Guardare Dopesick, che se non avete ancora visto potete recuperarlo su Disney+, è appropriato dire che è come ricevere una serie di pillole amare da ingoiare. Il dramma in otto parti – basato sull’omonimo libro non-fiction di Beth Macy – esamina le terribili cause e gli effetti della crisi degli oppioidi scatenata in gran parte negli Stati Uniti dalla Purdue Pharma, e dal suo antidolorifico “che non crea dipendenza” OxyContin.
Romanzato nei dettagli, ma racconta una storia effettivamente corretta, è una potente illustrazione del potere delle persone non vincolate da limiti finanziari o morali e la sofferenza indotta dall’avidità aziendale non frenata da un sistema normativo e legale sopraffatto e con poche risorse.
La miniserie comprende tre filoni. Il primo è la storia del dottor Samuel Finnix, interpretato con lodevole capacità da Michael Keaton. Finnix è un medico devoto in una piccola città mineraria degli Appalachi, preso di mira dalla Purdue come parte della sua missione per superare la riluttanza dei medici a prescrivere oppioidi per uso a lungo termine a causa delle loro ben documentate proprietà che portano alla dipendenza.
Viene persuaso dal giovane rappresentante di Purdue, Billy Cutler (Will Poulter), ad introdurre alcuni suoi pazienti nel nuovo farmaco. Una prima prescrizione viene fatta alla giovane Betsy (Kaitlyn Dever), che lavora nelle miniere accanto a suo padre, dopo aver subito un infortunio alla schiena. Non può permettersi di perdere il lavoro, soprattutto perché lei e la sua ragazza stanno risparmiando per iniziare una nuova vita in una città più accogliente.
Nel momento in cui diventa dipendente dall’OxyContin, la storia di Betsy combina le condizioni di povertà, disgrazia e il senso di speranza che hanno trasformato queste città nel ground zero di un’epidemia così espansa che avrebbe praticamente cambiato il paese.
Le prime parole che Finnix praticamente pronuncia sullo schermo sono proprio durante un’udienza nel 2005, parlando dei suoi pazienti: “Non posso credere a quanti di loro sono morti ora”.
Il secondo filone riguarda gli sforzi legali per perseguire la Purdue e i suoi proprietari, la famiglia Sackler. Peter Sarsgaard e John Hoogenakker interpretano due figure reali – rispettivamente gli assistenti procuratori degli Stati Uniti, Rick Mountcastle e Randy Ramseyer – che alla fine hanno intentato una causa contro la società.
È in gran parte attraverso loro due e il personaggio del vice direttore della Drug Enforcement Administration (DEA) Bridget Meyer (Rosario Dawson) che arriviamo a capire la natura pericolosamente permeabile che esiste nel confine tra lavoro pubblico e la vita privata – permettendo, per esempio, ai legislatori dell’FDA di lasciare l’impiego governativo per lavorare per le stesse persone che prima dovevano controllare.
Vediamo anche come la strategia di marketing della Purdue ha cambiato gli approcci verso il dolore e la gestione del dolore, sia tra i consumatori in generale che tra la professione medica, rimaniamo sbalorditi dalla manipolazione e dalla totale abrogazione della verità, in primo luogo della responsabilità necessarie per creare un mercato per l’OxyContin .
Il terzo filone si concentra sui Sackler – in particolare Richard (Michael Stuhlbarg) – il principale artefice del rendere l’OxyContin appetibile per un uso più ampio al fine di sostituire un lucrativo brevetto detenuto dall’azienda, che sta per scadere. Segue la lezione di suo zio Arthur, che fu incaricato dal gigante farmaceutico Roche negli anni ’60 di sviluppare una campagna di marketing per il loro farmaco ansiolitico Valium, nonostante i suoi effetti fossero praticamente gli stessi di un altro dei loro prodotti, Librium.
Arthur inventò l’idea della “tensione psichica” come condizione specifica del Valium, e il resto è storia del diazepam. Nel caso di Richard, all’oppioide ossicodone viene dato un rivestimento a lento rilascio che presumibilmente darà 12 ore di sollievo senza uno sballo, e di conseguenza eviterà la dipendenza e l’abuso.
Agli americani viene palesata la visione di un mondo senza dolore e perché no! Sarebbe un sogno, soprattutto quando viene convalidato con un bell’OK dall’FDA che lo ha etichetta come sicuro per un uso moderato del dolore. Peccato che proprio la persona che convalida questa etichetta un anno dopo è andato a lavorare proprio alla Purdue per 400.000 dollari all’anno.
Quando gli effetti non durano 12 ore, il disagio dei pazienti viene ribattezzato “breakthrough pain” e la soluzione propagandata dai produttori è di raddoppiare la dose.
C’è qualcosa di troppo in Dopesick che a volte non lo fa funzionare. I fili si allungano e si diffondono piuttosto che attorcigliarsi strettamente l’uno all’altro, la sua struttura – saltando avanti e indietro attraverso le diverse linee temporali – dissipa sia il senso narrativo che lo slancio.
Il risultato è una serie molto più caotica di quanto abbia bisogno di essere; più si ha familiarità con la storia dei Sackler e con la crisi degli oppioidi, più se ne trarrà un senso logico, il che non è l’ideale per una miniserie drammatica. Ma i punti principali e l’indignazione sono chiari. È forse meglio viverlo come un pezzo di accompagnamento al documentario di denuncia sullo stesso argomento, The Crime of the Century.
Il prodotto rimane buono, ma la storia aveva bisogno di essere più approfondita in alcuni punti, oppure non doveva essere messa così tanta carne al fuoco.
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