Ghostbusters: Legacy, un remake sbilanciato che manca di spirito e di divertimento. Recensione
Il franchise degli Acchiappafantasmi adesso ha un sequel inutile e inadeguato: Ghostbusters: Legacy, co-scritto e diretto da Jason Reitman (figlio di Ivan Reitman, che ha diretto l’originale), e che non ammette la confusione creata dall’introduzione di un nuovo tipo di fantasma simpatico e non controllabile. In modo poco chiaro, questo film porta la storia fuori dalla grande città (dove i fantasmi brulicavano in modo eccitante ed esilarante come ratti, nel film originale), e la sposta in una piccola città dell’Oklahoma, in questo panorama decisamente diverso si cerca di reinventare il tutto come un’avventura fantasy sub-Spielberghiana con un adorabile gruppo di adolescenti e ragazzini in prima linea nella caccia ai fantasmi. È qui che ha vissuto una vita solitaria il dottor Egon Spengler (un tempo interpretato dal defunto Harold Ramis), la storia per il resto è davvero poco interessante, sembra voglia solo attirare i fan con oggetti che portano alla memoria vecchi ricordi, non c’è altra spiegazione per un approccio che scambia l’ironia incarnata da Bill Murray per un’imitazione ingenua e seriosa della Amblin, in linea con la tendenza di Stranger Things. Non a caso troviamo un membro del cast condiviso Finn Wolfhard che interpreta Trevor, figlio adolescente della sfortunata famiglia Spengler. Lui, la mamma Callie (Carrie Coon) e la sorella disciplinata Phoebe (Mckenna Grace) si trasferiscono nella fattoria abbandonata lasciata dal nonno dei ragazzi, recentemente deceduto, che, guarda caso, si trova su un focolaio di ecto-attività. Insieme a nuovi amici, tra cui un ragazzo con un podcast chiamato “Podcast” (Logan Kim) in modo che nessuno dimentichi quale sia la sua caratteristica principale, e il sarcastico insegnante Mr Grooberson (Paul Rudd, costretto a un ruolo di sostegno comico con Coon che sottolinea solo la brutale mancanza di terrore), devono sconfiggere un altro dei cicloni energetici in CGI.
Ghostbusters: Legacy è una ruffianeria su tutta la linea, la parte scioccante è la varietà degli stratagemmi usati da Reitman, si consideri la vigliaccheria casuale di una sceneggiatura che usa la propria mitologia per cancellare sottilmente il reboot tutto al femminile del 2016, così facendo si è scatenata l’ira del web che ha bombardato a tappeto IMDb con valutazioni a zero stelle, ottenendo la rivendicazione da tempo desiderata. Persino la difesa dell’esperienza scientifica viene fuori come eccessiva e offensiva, dalla dichiarazione di Grooberson che la scienza è “punk” alla superiorità compiaciuta della piccola Phoebe. Il messaggio è chiaro, così come i suoi destinatari: non c’è niente di più potente, importante o figo che essere un nerd.
A questo punto possiamo confermare che l’unico sequel di Ghostbusters che ha avuto un qualche senso è stato il reboot del 2016 con Melissa McCarthy, Kate McKinnon e Leslie Jones – un film che ha capito che, come l’originale, doveva essere una commedia. Ma tutto questo è stato spazzato via dall’esistenza di questo nuovo approccio in stile Una notte al museo, disequilibrato e orientato solo per piacere ai bambini, in cui la chiave è la banalità della vanità. Ci si aspettava grandi cose da questo sequel, soprattutto perché era stato girato niente meno che dal figlio di colui che creò il primo, vero e unico Ghostbusters, Ivan Reitman. Invece Jason ha dato prova che i sequel o si sanno davvero fare, oppure rischiano di essere solo dei prodotti senza anima fatti per essere degli specchietti per le allodole per i fan di vecchia data, gli stessi che hanno deciso di andare al cinema dando fiducia e ricevendo un bel calcio sui denti. Cosa rimane a questi fan delusi? Solo qualche oggetto di scena rispolverato, che per qualche secondo gli ha fatto battere il cuore, e alcuni minuti in cui hanno potuto rivedere i loro beniamini per un’ultima volta (perché ormai il gioco è chiuso) di nuovo sullo schermo nei loro vecchi panni. Per essere un film evento si può dire che Ghostbusters: Legacy sia stato una grandissima delusione.