“Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione” è un libro scritto dagli antropologi Marco Aime, Adriano Favole e Francesco Remotti nell’agosto 2020 e pubblicato da Utet. Il saggio, composto tra tre parti, ciascuna scritta da un autore, è una finestra sul mondo in quanto si interroga sullo scenario post-pandemico e sul destino del genere umano.
Ricordiamo tutti le immagini angoscianti delle più note piazze italiane, semideserte e popolate al più da qualche piccione o auto della polizia. All’epoca, niente meno che l’anno scorso, gli italiani e molti altri popoli europei camminavano sul filo del rasoio, chiusi in casa e rassegnati a un destino apparentemente funesto. Nonostante il generale clima pessimista, spezzato talvolta dalla frase “andrà tutto bene”, ovunque ripetuta nei telegiornali, la quarantena ha portato con sé nuove ritualità, un elemento che sembrava essere scomparso dalle società occidentali come la nostra. Improvvisamente ci siamo affacciati dai balconi a cantare, se non a scambiarci oggetti e saluti vari, prima intonando l’inno nazionale, poi applaudendo gli operatori sanitari da noi definiti “eroi” per l’encomiabile impegno che stavano affrontando in quei giorni di totale chiusura.
Abbiamo praticato, senza nemmeno rendercene conto, quella che Francesco Remotti chiama, nella prima parte del volume, “sospensione”. Caratteristica fondamentale dell’antropologia culturale – quella che si occupa delle diverse forme di vita e pensiero presso i gruppi umani – la sospensione è una pratica a cui gli antropologi sono molto abituati. Essa non è altro che un periodo di cambiamento, esistenziale, fisico ma anche psicologico, che comporta un estraniamento da una situazione anteriore. Il fine della sospensione infatti è quello di farci rivalutare le nostre certezze che, spesso, diamo per scontate; tuttavia non sono innate, perché la cultura, per quanto interiorizzata, non è un fattore biologico.
“Anche quando la coscienza è sveglia – dice Remotti – durante il giorno, assistiamo a parecchi altri momenti di sospensione: interrompiamo il lavoro, lo studio o altre attività come lo sport, facendo subentrare i momenti di riposo, di svago, di ristoro. Si tratta di sospensioni che non sono del tutto lasciate all’arbitrio dei singoli: è la società che stabilisce i periodi di attività e di riposo.” E’, dunque, la società che ha il compito di riconoscere “fasi di più intensa attività e fasi di sospensione”.
Tornati presto alla normalità, tuttavia, abbiamo dimenticato quanto ci fossimo impegnati a ripensare la nostra concezione di collettività, sprofondando nuovamente nell’individualismo più ceco. Anche la cecità è stata una costante della pandemia: all’inizio sembravamo accorgerci dei notevoli impatti che l’assenza di attività umane aveva prodotto sugli ecosistemi naturali. Persino nelle città gli animali, da sempre rimasti nei paraggi ma invisibili solo ai nostri occhi, hanno occupato più posto rispetto a quanto ne lasciamo loro di consueto. Sembra però, secondo gli autori, che questo risveglio sia durato troppo poco per farci rivalutare il nostro sistema economico e i suoi rischi.
“Finché noi occidentali non adotteremo le sospensioni in un’ottica di ripensamento, continueremo ad essere degli usurpatori: solo nel mondo occidentale l’economia è stata rappresentata come un copione al quale tutti devono adeguarsi”, sentenzia nuovamente Remotti. Per l’antropologo, la fretta tipica del sistema capitalistico e consumistico a cui siamo sottoposti è la peggior nemica di una sospensione autentica e non superficiale. “La presunta naturalezza dell’idea secondo cui bisogna svilupparsi a tutti i costi, senza mai un momento di arresto, viene messa in crisi se si esce dal nostro guscio etnocentrico e ci si confronta con altre culture”.
Il saggio è un invito a ripensare le nostre abitudini, come già detto, ma anche ad abbandonare i pregiudizi che normalmente noi europei e occidentali abbiamo sulle altre culture, forti dell’idea secondo cui saremmo noi gli esseri umani più progrediti. Ma, soprattutto, è un invito a ipotizzare i possibili scenari che ci si prospettano con il nostro graduale rientro a lavoro e in società: l’ambiente sarà disposto ad accettare ulteriori “violenze” ai suoi danni? Quanto saremo capaci di salvare quel poco che è ancora salvabile, del mondo e dei nostri stessi valori? Stiamo davvero considerando che quest’ultimo collasso economico ha rotto per sempre la favola della crescita infinita? Chi ne pagherà maggiormente le conseguenze?
Per gli autori, sono soprattutto i giovani e le ultime generazioni a dover fare le spese di questo squilibrio ambientale e politico. “Noi antropologi abbiamo l’impressione che le società tradizionali si siano poste costantemente e problematicamente tale domanda, mentre al contrario le società moderne manifestano al riguardo una preoccupante cecità. Da sempre, nella civiltà occidentale, ci siamo posti al centro della Natura, come signori e dominatori della Terra. Chi ce lo impedisce è automaticamente un nemico. Il virus ha rischiato di mettere a nudo l’arroganza dell’essere umano verso gli esseri che insieme a noi abitano la terra. Sara sufficiente questa faccenda del coronavirus per mettere in discussione l’idea di avere il diritto di asservire la natura, di sfruttarla e piegarla alla nostra cultura estremamente consumistica? Quali sono le comunità e gli strati sociali presso cui potrebbe verificarsi questa crisi? Quali sono i ceti disponibili a riflettere sul nostro attuale modello di vita?”.
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