Nel 1953, un anno dopo Lo sceicco bianco, Fellini firma I vitelloni, il suo secondo lungometraggio in cui la sua poetica si fa ancora più visibile e marcata, in un film dal forte carattere Neorealista. Fausto (Franco Fabrizi), Moraldo (Franco Interlenghi), Leopoldo (Leopoldo Trieste), Alberto (Alberto Sordi) e Riccardo (Riccardo Fellini) sono cinque giovani, amici storici, che passano le loro giornate nel più completo ozio, rifuggendo dalle responsabilità e dal lavoro, preferendo lo scherzo e l’amore per le donne, ottimi anestetici per una realtà statica e poco stimolante. Sognano la città perché la provincia gli sta stretta (ritorna qui la tipica tematica felliniana), ma non si impegnano effettivamente per raggiungerla, mantenendo quel sogno sullo sfondo, un “pour parler” piuttosto che come un reale obiettivo.
Fausto, dopo aver messo incinta la sorella di Moraldo e averla sposata, davanti alla prova di responsabilità d’essere un marito e un padre, nonché lavoratore, sceglie invece di abbandonarsi alla sua lussuria e alla sua dissennatezza, avvicinando altre donne e facendo festa con gli amici, venendo sempre più spesso coperto dallo stesso Moraldo, che assume il ruolo di spettatore esterno delle vicende degli amici, l’unico che prenderà davvero il coraggio di abbandonare l’ozio e la decisione di partire per la città, simbolo della maturità. Alberto è costantemente alle prese con la sorella, controllando che non faccia scelte sbagliate, non accorgendosi dell’immobilità in cui riversa, tra un abbraccio alla madre preoccupata e un travestimento per fare qualche scherzo. Leopoldo è invece l’artista, l’intellettuale, colui che cerca di innalzarsi attraverso l’arte, la scrittura di drammi, venendo però servito e riverito dalla famiglia.
I vitelloni è la storia malinconica di un viaggio che non avviene mai, di catene mai spezzate e di una gioventù disillusa dopo la guerra, che vive in un mondo ricostruito sulle macerie dai loro padri, costanti mezzi di paragone, baluardo della responsabilità e senso del dovere che si va scontrando con il senso d’insicurezza e di confusione della moderna gioventù (sebbene il film dipinga lo scenario post-bellico degli anni ’50, lo scontro generazionale messo in scena non si discosta molto da quello odierno). Se da una parte c’è la vecchia guardia, idolatrata per essere riemersa dalle ceneri della guerra, dall’altra c’è la nuova generazione completamente assente di ideali, disillusa e impaurita, che si adagia, forse per paura, forse per comodità, nel nido familiare nell’attesa che il cambiamento arrivi dall’alto, senza un vero impegno a entrare nel mondo.
Fellini è tanto duro quanto dolce con i suoi vitelloni (termine poi entrato nell’immaginario collettivo, come anche “paparazzo” e “amarcord”), mostrando tanto la loro accidia quanto la loro fragilità, in un delicato quanto cinico oscillare tra comprensione e condanna. I vitelloni è il ritratto dell’Italia post-bellica, tanto pronta al cambiamento quanto alla paralisi, l’uomo forte e contemporaneamente impaurito, virtuoso e vizioso, mostrando giovani bloccati nelle carezze familiari ma (fintamente?) desiderosi di cambiare.
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