Tra caramelle e schizzi di materiale cerebrale, Squid Game, la serie tv coreana ideata da Hwang Dong-hyuk, ha conquistato le classifiche di Netflix in tutto il mondo mettendo in scena una competizione crudele fatta di giochi per bambini in cui viene applicata una sola regola riassumibile in quattro parole: “Mors tua vita mea”.
Tutti da piccoli abbiamo giocato a “Uno, due, tre… Stella!”, spesso calcolando male i tempi e perdendo l’equilibrio di fronte a un amico che si gira prima del previsto. Questo è il primo dei giochi che i personaggi della serie tv Squid Games si trovano ad affrontare davanti ad un’inquietante bambola gigante, inconsapevoli che al primo barcollamento sarebbero stati uccisi.
Subito dopo il primo episodio “Red Light, Green Light” diventa chiaro che i partecipanti non stanno gareggiando solo per dei soldi, ma per la loro sopravvivenza. E se di fronte a quell’ammasso di cadaveri è facile pensare che i prossimi episodi non possano superare quella dimostrazione di crudeltà, basterà passare al successivo perché entri in gioco una grande carica di egoismo e violenza gratuita che porta i partecipanti a colpire alle spalle di amici e altri concorrenti anche quando sono terminati i giochi.
Tutto ha inizio in una fermata della metro dove Seong Gi-Hun (Lee Jung-jae), di ritorno a casa dalla mamma dopo un’altra giornata buttata nel centro scommesse della città, incontra un uomo ben vestito che promette di dargli dei soldi se fosse riuscito ribaltare una busta a terra lanciandone sopra un’altra. Dopo diversi tentativi falliti, finalmente riesce a far girare la busta dell’avversario e riceve il montepremi insieme ad un bigliettino con un numero di telefono da contattare nel caso avesse ad altri semplici giochi per bambini con in palio una grande quantità di denaro.
Seong Gi-Hun, accedendo all’arena dei giochi, si ritrova con persone caratterizzate dalle più disparate cornici sociali: ci sono criminali, uomini d’affari, coppie, madri e padri di famiglia che, per quanto diversi, hanno tutti grandi debiti da saldare che creano un sentimento comune: la disperazione. Ed è la loro disperazione il carburante di quella grande macchina mortale, infatti, nonostante la carneficina di “Green light, red light” e la possibilità di terminare i giochi, la maggior parte di loro, qualche giorno dopo, sceglie di tornare a partecipare per ottenere il montepremi finale contenuto in un enorme salvadanaio che pende dal soffitto ricordandogli l’obiettivo fisso sopra e dentro la loro testa.
I sei giochi da affrontare per ottenere il montepremi finale sono tipici della cultura coreana e presi in prestito dall’infanzia di ciascuno dei partecipanti che, mentre da piccoli perdevano una partita, oggi perdono la vita, dimezzandosi: dopo “Uno, due, tre… Stella!” si passa al gioco dei Dalgona, dei biscotti di caramello da cui ritagliare la figura disegnata all’interno senza romperla. Poi c’è il “Tung of War” (il nostro tiro alla fune) con la differenza che, mentre noi ci giocavamo al parco, loro si battono su una piattaforma da cui la squadra perdente cade a picco sul terreno. Si procede con il gioco delle biglie, in cui vince chi riesce ad accaparrarsi tutte quelle del compagno di squadra, il gioco del doppio ponte, uno fatto di vetro normale e l’altro di vetro temperato che, con il peso del corpo, si riduce in mille a mille pezzi. Per ultimo, il gioco del calamaro, da cui prende il nome la serie tv Squid Game, in cui due partecipanti si battono per il montepremi finale: l’attacco deve correre oltre la difesa mentre quest’ultima cerca di spingerlo fuori dalla sua area.
A giocare in finale arriveranno due amici d’infanzia che da bambini si scontravano spesso proprio al gioco del calamaro: il numero 456 ossia Seong Gi-Hun, e il numero 218, Chong Sang-Woo (Parco Hae-soo).
I giochi della serie tv Squid game sono facili e le loro regole sono chiare, per questo da spettatori si ha tutto il tempo di concentrarsi sulla performance dei personaggi e sulla loro emotività ad un passo dalla morte. All’inizio di ogni gioco ci si chiede quale sarà, se riusciranno a prevederlo con gli indizi iniziali e viene naturale ipotizzare quali saranno i concorrenti a sopravvivere.
I personaggi principali sono Seong Gi-un, Cho Sang-woo e Kang Sae-Byeok (interpretata dalla top model coreana Jung Ho-yeon che debutta come attrice con Squid Game), ma ci si affeziona anche a quelli di cui non conosciamo il nome e il loro bagaglio di vita, perché la loro disperazione e i loro problemi appartengono al nostro mondo e, per questo, non possiamo che sentirci vicino a loro.
Uno personaggio fuori dal coro è il poliziotto Joon-ho (Wi Ha-joon) infiltrato nel distopico universo di Squid Game per cercare il fratello scomparso. Attraverso i suoi occhi entriamo nella quotidianità delle guardie nascoste dietro le tute rosse e le maschere nere che vivono una vita militarizzata in cui si spara senza fare domande, si parla solo se un superiore lo permette e si va a dormire quando la limpida voce femminile dell’arena comanda.
Su questi personaggi, però, sappiamo ancora poco, se non che sono stati reclutati volontariamente e che si occupano di vendere gli organi degli eliminati: rimane un dubbio tra i fan della serie tv Squid Game, che si chiedono se le guardie siano state reclutate con la stessa modalità dei concorrenti. Infatti, nel gioco esca delle buste, prima di ogni altra cosa, veniva chiesto di scegliere tra la busta rossa e quella blu, i due colori predominanti in Squid Games: i concorrenti indossano tute blu (anche se è decisamente più tendente al verde), mentre le guardie tute rosse. E se la scelta della busta determinasse che ruolo ottenere?
Nei giochi finali veniamo a scoprire che a muovere la grande macchina mortale sono uomini benestanti che, annoiati da una vita agiata, si dilettano a scommettere sui concorrenti come se fossero cavalli da corsa. Tutto quel sangue non nasconde una vendetta o una dimostrazione sociale, ma solo puro e frivolo divertimento per ricchi.
Alla fine dei sei giochi a sopravvivere sarà Seong Gi-Hun che, tornato alla sua vita, decide di non usare i milioni di won vinti in quell’inferno indimenticabile che, inaspettatamente, tornerà a bussare alla sua porta: riceve da una venditrice di rose lo stesso biglietto che l’aveva incastrato con scritto un indirizzo. Arrivato al luogo indicato, incontrerà il suo amico, il numero 001 (Oh Yeong-su), un anziano signore che credeva morto per aver perso contro di lui al gioco delle biglie.
Il numero 001 confessa di essere la mente dietro la macchina della morte pensata per il divertimento dei ricchi e per dimostrare la sua tesi sull’egoismo e sulla mancanza di bontà degli esseri umani, incapaci di aiutarsi a vicenda. Dopo anni rimasto a guardare gli altri uccidersi, ha deciso di partecipare per ricominciare a sentirsi vivo e provare quella paura che ti tiene con il fiato sospeso prima di ogni gioco.
Nel finale di Squid Game, Seong Gi-Hun, sotto shock, deciderà di trasferirsi negli Stati Uniti per raggiungere sua figlia, ma proprio sta per mettere i piedi sull’aereo cambia direzione, deciso a tornare lì, dove tutto è iniziato, a salvare le vite delle altre prossime centinaia di vittime.
Negli ultimi anni il cinema sudcoreano è riuscito a farsi apprezzare globalmente portando sul piccolo e sul grande schermo messaggi che nascondono una tagliente critica sociale come quella presentata in Parasite, il primo film non in inglese a vincere quattro Oscar tra cui quello per il miglior film 2020.
Anche la serie tv Squid Games sta scalando velocemente le classifiche mondiali, forse perché quell’universo dispotico, in realtà, è molto più reale di quel che sembra e porta ognuno di noi a chiedersi, nell’angolo più remoto del proprio inconscio: “E io, cosa farei se la mia vita dipendesse dalla morte di un altro?” Questo perché, attraverso l’accostamento gioco-morte, la serie tv Squid Game porta in luce l’allegoria della moderna società capitalista in cui, di fronte alla propria sopravvivenza e ad un’ingente somma di denaro, l’egoismo del singolo infanga qualsiasi traccia di umanità.
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