A volte ci vuole quella marcia in più nella tecnologia per poter trasformare testi iconici della fantascienza e del fantasy in veri capolavori cinematografici. Dune è uno di questi esempi, finora ha fatto fatica a trovare una degna collocazione, ma il lavoro di Denis Villeneuve gli ha dato il pregio che si meritava. Finalmente Dune ha il suo spazio tra i meritati blockbuster di Hollywood.
Come successe per la trilogia de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, vincitrice di un Oscar, rispetto alla versione di Ralph Bakshi del 1978, alla nuova versione è stata conferita lucentezza e meraviglia che solo il tempo e gli effetti speciali potevano creare, diversamente avremmo avuto una lunga pellicola ricca di contenuto, (perfetta come romanzo, infatti), ma carente a livello visivo.
Dune dello scrittore Frank Herbert, pubblicato negli anni ’60, rischiava di seguire un destinato simile, dopo la famosa versione di David Lynch del 1984, nota per essere stata rinnegata dal suo stesso regista (che ha lottato con i dirigenti dello studio e non ha ottenuto il montaggio finale) e infine liquidata dalla critica. Ma guardando indietro si rivela subito chiaro il fatto che fosse impossibile al tempo poter portare questo gigantesco mondo fatto di deserti sconfinati, grandi e imponenti strutture, tenendo presente anche le tecnologie futuristiche, senza una massiccia dose di tutto quello che abbiamo ora per la post produzione.
Il film di Villeneuve ci ricorda cosa può essere un colossal oggi, questa epopea fantasy ci dice che gli spettacoli a grande budget non devono essere per forza superficiali o iperattivi, ma che possiamo avere una storia struttura e profonda, con tanti momenti di riflessione, anche passando attraverso il caos più assoluto, signore e signori abbiamo il grande cinema.
Questo nuovo Dune, e a questo punto abbandonerei i paragoni con i precedenti film considerandolo l’unico, è denso, cupo e molto spesso sublime, quello spettacolo che invoglia la gente a tornare nelle sale cinematografiche perché è l’unico vero modo per apprezzarlo nel suo complesso.
Timothée Chalamet interpreta Paul Atreides, un perfetto eroe che vediamo nascere, insicuro dei suoi poteri, mette in discussione i meriti del compito a cui sembra dover andare incontro. Suo padre, il Duca (Oscar Isaac), si trova a dover gestire il pianeta desertico Arrakis, fonte di una sostanza magica chiamata “spezia”, che estende la vita e alimenta i viaggi nello spazio. Ma Arrakis, anche se sabbioso, non è del tutto deserto, è la casa di vermi giganti che possono apparire con poco preavviso, inoltre è la dimora di un popolo oppresso, i Fremen, che vede i raccoglitori di spezia come sfruttatori.
Se l’attinenza al mondo reale del racconto non fosse abbastanza chiara, Villeneuve ha preso la decisione di vestire le donne locali in hijab e di rendere la maggior parte degli interni come se ci si trovasse in nord Africa, per quanto tutto sia così “spaziale” è impossibile non cogliere gli analogismi che, andando avanti nella storia, appaiono sempre più evidenti. Al loro arrivo, Paul e il Duca percorrono la passerella in uniforme dorata, sembrano quasi due coloniali vecchio stile, venuti per imporre la civiltà agli indigeni per riempire le loro tasche.
Ma il mondo desertico di Dune ha la capacità di distruggere coloro che vengono a domarlo, proprio come il romanzo stesso ha fatto con i predecessori che hanno provato a portarlo sullo schermo. Anche Villeneuve non può ancora cantare vittoria ovviamente, il Dune che abbiamo potuto vedere copre solo la prima metà del libro, se questo dovesse non avere un buon ritorno al botteghino è probabile che la sua storia rimanga incompleta. E sarebbe un vero peccato.
“Sono stato mandato per fallire”, dice il Duca quando la produzione della spezia è in stallo e si rende conto di quanto maligne siano in realtà le forze contro di lui, il maestro d’armi interpretato da Josh Brolin non può salvarlo, mentre il barone fluttuante di Stellan Skarsgard sta tramando una sanguinosa vendetta. L’unica possibilità per Paul è quella di abbracciare il suo destino e ritagliarsi un nuovo percorso, che porta dritto verso le colline. La sabbia soffia e va alla deriva come un essere vivente. I vermi ti inghiottono per intero, se gli venisse data la possibilità, il povero Paul è in un baratro di emozioni, gli eventi che lo hanno portato nel deserto hanno sconvolto la sua vita e adesso non può fare altro che chiedersi cosa farà dopo. Quello che gli viene risposto, e che anche noi abbiamo capito vista la vastità di meccanismi che si sono messi in gioco è che “Questo è solo l’inizio”.
Il dramma è interpretato con stile da un cast eccezionale, troviamo Rebecca Ferguson, Charlotte Rampling, Jason Momoa e Villeneuve è abbastanza sicuro di sé da lasciare che il pathos cresca lentamente a un ritmo costante prima che i grandi momenti drammatici rompano la scena. Ha costruito un intero mondo facendocelo assaporare poco per volta in un crescendo di emozioni e meraviglia per gli occhi, denso di mito e di mistero.
Ci ha consegnato un film da disegnare a nostro piacimento e da capire un passo per volta, questo volerci mettere alla prova ci arriva fin da subito dove sputare viene visto come un’offesa, ma il nostro punto di vista sul mondo è così limitato in mezzo a infinite culture, usanze e civiltà. Così la connotazione di sputare verso qualcuno si trasforma in un gesto di rispetto, impariamo a camminare di traverso nel deserto, perché è il modo più sicuro di procedere, questo film è un viaggio in un luogo sconosciuto, ma anche in viaggio verso l’apertura mentale su quello che non conosciamo. È un film da scoprire, un invito a perdersi per ritrovarsi. Dune di Denis Villeneuve potrebbe essere non solo la versione cinematografica che tutti aspettavamo, ma anche la storia di cui abbiamo bisogno.
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