Il film Rushmore è una storia di formazione tra aspettative e maturità
Rushmore è il secondo film di Wes Anderson che, nel 1998, getta solide basi per quella che sarà la sua poetica e il suo stile per i lavori futuri. Sceneggiato assieme all’amico Owen Wilson, Rushmore presenta numerosi inserti autobiografici, rendendo il lungometraggio un’opera a metà tra il racconto di formazione dello stesso Anderson che una storia di fantasia toccante e sopra le righe. Max Fisher (Jason Schwartzman) è un quindicenne che frequenta la scuola privata Rushmore con scarso profitto, ma con grandissima passione verso le attività extracurricolari, tra cui la regia di opere teatrali scritte da lui. Conoscerà, restandone innamorato, la maestra Rosemary Cross (Olivia Williams) e l’imprenditore Herman Blume (Bill Murray) che a sua volta si innamorerà della maestra, dando vita a un curioso triangolo in cui maturità, immaturità, aspettative, realtà e sogni a occhi aperti si fonderanno in un’analisi dei personaggi che nel corso dell’opera si evolveranno in un percorso di conoscenza di loro stessi.
Già in questo film è possibile apprezzare lo stile “andersoniano” che esploderà nelle sue opere successive: regia minimale, inquadrature simmetriche, colori pastello, immagini composte su tutti i livelli di profondità di campo e personaggi a tratti realistici e a tratti surreali. I piccoli si comportano come i grandi e gli adulti come bambini, dando vita a scene che capovolgono le normali aspettative, con quindicenni dalle straordinarie capacità dialettiche e ricchi imprenditori che fanno dispetti infantili.
Il film Rushmore è un’opera che parla di creatività artistica, di ossessione, di amore, il tutto legato dal filo rosso del trovare il proprio posto nel mondo e la propria felicità “Secondo me devi trovare qualcosa che ami fare e poi farlo per il resto della tua vita. Per me è frequentare la Rushmore” come dice Max a un certo punto del film. Per trovare la felicità si deve fare i conti con le aspettative, spesso ingigantite e mitizzate, come l’amore del quindicenne Max verso la maestra Rosemary, che non potrà fare altro che schiantarsi contro il muro della realtà. C’è poi un Herman, un adulto fatto e finito che dovrebbe incarnare i tratti della maturità ma che invece, infelice della propria vita coniugale sfocerà negli stessi comportamenti infantili di Max. Infine Rosemary, il teorico ago della bilancia che invece, innamorata ancora del defunto marito, dell’idea che lei ha di lui, si ritrova nello stesso idealismo giovanile degli altri due personaggi.
Anderson non porta una carica pessimistica nel film, ma non lascia neppure un lieto fine da fiaba, dove tutto è perfetto e colorato, sebbene il suo stile faccia pensare l’opposto. Essendo presente tanto della vita dello stesso regista, il film è manifesto di come le aspettative vadano ridimensionate, crescendo, non nella rassegnazione che porta all’infelicità, ma in un rapporto risoluto con la realtà che è fuori dalla propria testa. Un film che, sebbene ancora grezzo nella narrazione, merita di essere visto perché oltre a far riflettere in maniera abbastanza originale strappa numerose risate e catapulta nel mondo “andersoniano” con estrema efficaccia.