Pestaggio a Santa Maria Capua Vetere: dov’è finita la rieducazione carceraria?
È il 6 aprile del 2020 nell’Istituto Penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, l’Italia è in pieno lockdown: l’incertezza è tanta. Ci hanno imposto di rimanere nelle nostre case, per tutelare la nostra salute, da quello spettro invisibile che è il Covid19. Adesso, spostiamo per un attimo quell’incertezza e quella sensazione di paura e smarrimento in un luogo differente dalle nostre abitazioni: il carcere. I detenuti, preoccupati per il virus, cominciano a chiedere più certezze, più rassicurazioni e tutele, in svariati istituti penitenziari italiani prendono vita alcune proteste.
Allo stesso modo accade nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Quella protesta però subisce delle gravi ritorsioni. Degli agenti della polizia penitenziaria in servizio nel carcere e alcuni dipendenti che ricoprono alte cariche del DAP, risultano coinvolti materialmente o per aver autorizzato l’esecuzione di un pestaggio brutale ai danni dei detenuti, sfruttando il pretesto di un’ispezione. Ai sensi dell’art. 34 dell’Ordinamento Penitenziario: ”I detenuti e gli internati possono essere sottoposti a perquisizione personale per motivi di sicurezza. La perquisizione personale deve essere effettuata nel pieno rispetto della personalità”.
Dovrebbe essere dunque una normale attività di routine. Il video del pestaggio a Santa Maria Capua Vetere, diffuso nella scorsa settimana, non può essere considerato una normale e giustificata attività della polizia penitenziaria. Sembrano immagini uscite da un film, ma purtroppo è un’amara realtà. Detenuti trattenuti con la forza, selvaggiamente picchiati, disposti faccia al muro, a mo’ di punizione e circondati da guardie, che facendo muro attorno ai detenuti, preparano loro un corridoio di umiliazioni, violenze fisiche e insulti.
In quel drammatico pestaggio a Santa Maria Capua Vetere si è parlato anche di gravissimi episodi di violenza, come di una presunta perquisizione anale, effettuata nei confronti di un detenuto o di barbe crudelmente strappate o tagliate e di un metodo, usato già in precedenza, noto come metodo Poggioreale. Potrei soffermarmi su ulteriori dettagli raccapriccianti di questa vicenda, che avrebbe fatto accapponare la pelle anche a Bentham e Beccaria, il mio obiettivo però non è quello di spaventare il lettore, ma di indurlo a fare una riflessione. Si parla tanto nel nostro Paese di funzione rieducativa della pena e della dignità dei detenuti. Una struttura carceraria ha come compito imprescindibile quella di garantire la sicurezza della persona che sta scontando la pena.
Sì, vorrei porre l’accento sul termine persona. Perché i detenuti sono persone. Spesso, chi vive in carcere non viene più considerato come tale, il sistema carcerario è un problema che riguarda noi tutti, non semplicemente chi sta dietro le sbarre. La civiltà di una Nazione può essere sicuramente misurata da come vengono trattati i carcerati. Come possiamo parlare di rieducazione e di reintegrazione di una persona che ha scontato una pena, se i metodi usati sono tutto tranne che rieducativi? C’è tanto lavoro da fare e sicuramente questa triste vicenda non può e non deve essere dimenticata. Come allo stesso modo non bisogna pensare che tutti i dipendenti che lavorano in una struttura carceraria siano degli aguzzini, o degli individui che eseguono come robot ordini impartiti dall’alto, senza avere né coscienza né empatia.
Sostenere che tutti gli agenti e dipendenti del DAP siano delle “mele marce”, significa apportare un fallimento al sistema carcerario, ingenerare odio e inasprimento della violenza. Riflettere su questa vicenda, significa soprattutto fare prevenzione. Significa non scoraggiare i tanti giovani che hanno dei valori e vorrebbero lavorare in questo settore e credetemi sono tantissimi. Bisognerebbe rieducare la subcultura carceraria stessa, dove ogni detenuto porta con sé, non solo il reato che l’ha condotto a scontare una pena, ma anche un percorso fatto di minacce, violenze e soprusi spesso taciuti. Siamo ben lontani dal puro idealismo del Panopticon, laddove vi è un invisibile guardiano che controlla i detenuti, spingendoli a tenere un buon comportamento e all’osservanza delle regole. Ogni volta che vi sono episodi di repressione, il diritto lascia lo spazio ad un brutale atavismo.
Un’altra conseguenza da non sottovalutare è la paura e il timore di ripercussioni nel caso delle denunce sporte dai detenuti, che come testimonia la moglie di uno dei detenuti oggetto del pestaggio, sono stati esortati a ritirare le denunce sporte. Vorrei riportare uno stralcio delle dichiarazioni rilasciate da Gennarino De Fazio, segretario generale della UILPA Polizia Penitenziaria ”La verità è che quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non è il frutto di poche mele marce: è il sistema carcerario che non funziona” … e ancora: ”Sto dicendo che il carcere è considerato da tutti- dall’opinione pubblica ma anche, e questo penso sia assai più grave, da chi ha responsabilità di direzioni diverse, dal ministero al Dipartimento- un luogo in cui il diritto è come sospeso. Un luogo dove tutto può succedere”.
Inoltre chiede spazi più importanti per i detenuti e la certezza che le regole siano rispettate. Vi è anche la testimonianza di un agente di polizia penitenziaria, che durante il pestaggio a Santa Maria Capua Vetere, nel difendere i detenuti è stato a sua volta picchiato. Tra le indagini della procura e un continuo rimpallo sulle competenze, come ad esempio: chi nelle dirigenze poteva immaginare che tipo di perquisizione fosse stata effettuata, chi non fosse presente, la vicenda continua. Mi auguro che venga fatta al più presto luce su questo episodio e che vengano accertate le responsabilità in merito a questo orribile accaduto. Quello che è certo, è che il sistema deve essere riformato in maniera seria e che vengano espunte quelle subculture da cui lo stesso è fortemente permeato. Vorrei chiudere con delle parole tratte dal film “Sleepers”: ”Un certo numero di detenuti, anche se si comportavano da duri durante la giornata, spesso si addormentavano piangendo, la sera. C’erano anche altri pianti e diversi da quelli indotti dalla paura e dalla solitudine. Erano più bassi e soffocati: la voce dell’angoscia. Pianti che possono cambiare il corso di una vita. Pianti che una volta sentiti non li cancelli più dalla memoria.”
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