Il lavoro di Elsa Schiaparelli ha da sempre destato scalpore per la sua così profonda storia d’amore col mondo dell’arte, in particolare con l’universo di Surrealisti come Salvador Dalì, Marcel Duchamp e Jean Cocteau. Degli elaborati, per usare parole sue, shocking, capaci di mettere in discussione il labile confine che esiste tra moda e arte.
Sovente nella storia dell’arte e successivamente nella storia della moda abbiamo assistito a come questi due universi collimino l’uno nell’altro per creare qualcosa che non sia né l’uno né l’altro, o forse un po’ l’uno e un po’ l’altro.
Ogni pittore figurativo per rappresentare un soggetto si è dovuto necessariamente imbattere nello studio del costume, dei tessuti e degli accessori. Meno diretta invece è stata la relazione tra stilisti o designer e arti figurative, in quanto fanno parte di un processo creativo che tende a ispirarsi all’arte più che a rappresentarla.
Il caso però di Elsa Schiaparelli e i surrealisti fa parte di una storia un po’ a sé stante rispetto a quest’ultimo caso. Storica è infatti la sua collaborazione con i surrealisti, e non solo, per quanto riguarda il suo processo di ideazione e realizzazione degli abiti. Elsa Schiaparelli non prendeva semplicemente spunto da mostre e cataloghi d’arte, lei viveva l’arte e i suoi abiti, non erano altro che una traduzione delle opere, per esempio di surrealisti e dadaisti come Dalì, Duchamp, Man Ray o Magritte. Una trasmigrazione dell’opera d’arte in un qualcosa costituito da stoffa, merletti e bottoni.
Opere d’arte indossabili, diventando simili a una performance, miscelando corpo-arte-vestito in un unico momento-opera. Il tutto cominciò nel 1916, quando Elsa si trasferì a New York entrando ben presto in contatto con il mondo di Man Ray e Marcel Duchamp; rientrata a Parigi, da lì in poi si stabilì una liaison durata quasi mezzo secolo, nella quale si possono contare nomi come Pablo Picasso, Leonor Fini, Alberto Giacometti, Raoul Dufy, Jean-Michel frank e in seguito persino Meret Oppenheim e Andy Warhol.
Durante la sua carriera Elsa Schiaparelli non si limitò soltanto alle arti visive, ma creò un legame anche con la letteratura surrealista, in particolare con Paul Éluard, Louis Aragon e Jean Cocteau (quest’ultimo non solo a livello poetico ma anche sul campo del disegno).
Elsa nella sua metodologia di lavoro, decontestualizzava e assemblava elementi come i più integerrimi dadaisti e surrealisti, combinava abiti con aragoste, insetti di vetro e pietre, cornette e dischi del telefono, metteva una scarpa in testa come cappello, persino una bottiglia del suo profumo a mo’ di pipa alla Magritte.
Quello che la differenzia rispetto al milieu di stilisti e creatori di moda, che si permettevano di azzardare tanto a livello artistico solo nel campo del costume per il teatro e il balletto, è stata soprattutto la visibilità e la straordinaria diffusione che le sue invenzioni avevano ottenuto tramite ammiratrici e sostenitrici, come dive del cinema quali Katharine Hepburn e Marlene Dietrich, o importanti esponenti dell’alta società, come la duchessa di Windsor, Wallis Simpson.
Non si sa bene quanto questo rapporto talmente viscerale possa aver giovato alla Schiaparelli stessa, poiché destino comune hanno avuto entrambi, sia il surrealismo che il suo atelier, cioè quello di chiudere i battenti: il primo in quanto superato da altre espressioni artistiche, l’altro dovendo fermare la produzione ormai rallentata e spiazzata di fronte al cambiamento dell’arte (non avendo più la sua fonte primaria di ispirazione, il surrealismo) e della moda, con nuove silhouette ed esigenze da parte del cliente.
Un finale di scena coi fiocchi, anche se pur di finale si tratta.
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