Pride Month e linguaggio inclusivo: una questione su cui è indispensabile porre l’attenzione. Nel mese del pride è d’obbligo riflettere più profondamente sul significato di libertà d’espressione e d’identità, da garantire non soltanto tramite le azioni, ma anche e soprattutto con il giusto linguaggio. L’inclusione parte prima di tutto dal modo in cui ci rivolgiamo agli altri, e non possiamo pensare di rimanere al passo di un mondo sempre più vario continuando a usare espressioni linguistiche figlie di tempi ormai troppo lontani.
La diversità, intesa nel senso positivo del termine come eterogeneità, va coltivata e protetta per rendere la società un posto sicuro per tutti. La parata del pride nasce proprio per celebrare l’accettazione, di se stessi e degli altri, per sensibilizzare le persone su temi ancora tristemente attuali come bullismo e violenze di natura omofoba, e per rivendicare diritti e tutele. Giugno non è un mese scelto a caso: nelle giornate del 27 e 28 cade infatti l’anniversario dei moti di Stonewall, considerati la nascita del movimento di liberazione gay e l’inizio delle moderne “lotte” d’inclusione.
Nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1969 la polizia di New York irruppe in uno dei bar gay più famoso della grande Mela, lo Stonewall Inn, per una delle solite retate. L’obiettivo era arrestare e rendere noti i frequentatori del posto, considerati “indecenti” per la società. Ad essere bersagliati, in particolare, erano coloro trovati senza documenti o vestiti con abiti del sesso opposto. Quella notte, però, le cose finirono in modo diverso: Sylvia Rivera, stanca delle repressioni a cui erano costretti, si ribellò agli agenti scagliando una bottiglia contro uno di loro, dando origine a violenti scontri tra la folla e i poliziotti. Le rivolte proseguirono per tutta la notte e accesero altre proteste in tutta la città nei giorni a seguire. La miccia del movimento di liberazione era stata accesa: a luglio si formò il Gay Liberation Front, padre del primo pride della storia tenutosi un anno dopo le rivolte di Stonewall. Contemporaneamente nacquero centinaia di iniziative simili anche nel resto del mondo, forti di un coro di voci arrabbiate e stanche.
Fino ad oggi ci sono state molte conquiste da parte della comunità LGBTQ+, la quale ha trasmesso (e continua a farlo) un messaggio molto forte, purtroppo ancora non completamente ascoltato. È ormai fondamentale, in questo momento storico, costruire una società informata e attenta all’argomento, in grado di comprendere e abbracciare tutte le sfumature dell’identità di genere e della sua espressione. Le iniziative del pride month vogliono porre l’attenzione proprio su questo, anche tramite l’apprendimento di un linguaggio nuovo e inclusivo.
Sempre più spesso nei profili social (e non solo) vediamo specificati i pronomi da usare per riferirsi a una certa persona. Il modo con cui parliamo di qualcuno si appoggia fortemente su questa componente del discorso, in quanto identifica e assegna un genere alla persona di cui stiamo parlando. “Lei/lui” (“she/her” e “he/him” in inglese) danno già un’importante informazione sul soggetto di cui stiamo parlando, cucendogli un’identità di genere addosso. Questa identità, però, potrebbe non corrispondere con quella che la persona in questione sente come propria. Fare un’assunzione di questo tipo è sbagliata e, in molti casi, può risultare offensiva. La necessità di usare il giusto pronome, specificato da ogni persona, nasce dalla differenziazione tra sesso, identità di genere ed espressione di genere:
Non è corretto assumere il genere di una persona basandosi soltanto sulla propria percezione, peraltro derivante da schemi mentali ormai obsoleti. Se qualcuno esplicita i pronomi da usare per la propria persona è obbligatorio rispettare questa richiesta ed esaudirla. Violare l’identità di genere di qualcuno non ha alcuna motivazione valida, se non l’ignoranza e la cattiveria. Una persona può sentirsi donna, uomo, nessuno dei due o entrambi, e in tal senso condivide una serie di pronomi con cui si sente a suo agio. Oltre ai già citati she/her e he/him si possono usare they/them (“loro” in italiano), o ze/hir, non traducibile nella nostra lingua. Questi ultimi due vengono solitamente usati per il gender neutral e per chi non si identifica nella classificazione maschile/femminile. Un’alternativa può essere l’utilizzo del nome proprio al posto dei pronomi di terza persona (Mario ha scritto un libro).
Nel caso dell’italiano si aggiunge la componente del genere anche per i verbi, per indicare un gruppo di persone o un tipo di lavoro. Oltre a ciò, anche l’uso del maschile sovraesteso (ad esempio i lettori per indicare un gruppo eterogeneo) è uno scoglio non indifferente. Ci sono comunque alcuni accorgimenti da poter usare, tra i quali lo schwa (“ə” per il singolare, “з” per il plurale), l’asterisco o la chiocciola, rappresentativi del neutro. Meglio ancora, si potrebbe adattare il parlato e lo scritto usando termini neutri di natura, come personale scolastico al posto di insegnanti e bidelli. Inizialmente potrebbe sembrare ostico cambiare il proprio modo di parlare e porre l’attenzione su aspetti della lingua dati per scontati, ma si tratta comunque di uno “sforzo” minimo, necessario però a far sentire chiunque parte integrante della società, in qualsiasi modo scelga di identificarsi.
Purtroppo c’è ancora molta resistenza verso questo cambiamento. Uno dei problemi principali è l’insufficienza e la superficialità d’informazione riguardo questo tema delicato da parte dei media nazionali e internazionali. Se non si educano le persone all’accettazione e alle nuove forme di espressione non si riuscirà mai a garantire inclusività e rispetto per tutti. Prima di tutto c’è bisogno di spiegare le ragioni dietro questa evoluzione ed eliminare l’ignoranza alla base dell’odio e della paura. Il pride month ce lo ricorda, e il minimo che possiamo fare è scegliere di usare un linguaggio inclusivo, alla portata di ogni identità.
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