Datato 1998 e vincitore del premio della giuria al 51° Festival di Cannes, Festen – Festa in famiglia è il primo film appartenente al filone Dogma 95, manifesto ideologico di produzione cinematografica autoriale firmato da Thomas Vinterberg e Lars Von Trier, che dimostra come le buone idee possano funzionare anche senza budget miliardari o effetti speciali da capogiro. Questo film affronta le molestie sessuali e la negazione, tematiche molto simili a Il sospetto (2012) di cui Festen – Festa in famiglia è considerabile il padre, in maniera originale e surreale, restituendo sensazioni di straniamento che ricordano il cinema di Bunuel e Lanthimos.
La famiglia Klingenfeldt e numerosi amici si riuniscono in una villa per festeggiare il 60° compleanno di Helge, padre di Christian (Ulrich Thomsen), primogenito dal temperamento remissivo, Helene (Paprika Steen), ironica e dall’umore altalenante e Michael (Thomas Bo Larsen), famoso per i suoi scatti di rabbia. Già durante i preparativi della festa si respira un clima teso, mascherato a tutti i costi da calma e sorrisi apparenti, come vuole l’etichetta e la morale borghese. La tempesta viene scatenata da Christian quando, durante il suo brindisi, accusa il padre di aver molestato da piccoli lui e la sorella Linda, morta suicida poco tempo prima. A differenza de Il sospetto, in cui sappiamo fin dal primo momento dell’innocenza dell’accusato, qui la realtà si scoprirà soltanto alla fine, restando in dubbio se i fatti accaduti siano reali o soltanto frutto della mente debole e malata di Christian, così descritta dai genitori in risposta alle accuse.
Non siamo davanti a un thriller, non saranno le indagini il centro cardine del film, ma dell’indifferenza iniziale mostrata dai commensali al momento dell’accusa, attuando in tutto e per tutto un meccanismo di negazione per proteggersi dalle emozioni che scaturirebbero da un evento così scabroso. Grandissimo lavoro è fatto dalla regia, priva di fronzoli e dall’impostazione teatrale, seguendo appunto i dettami di Dogma 95, che esalta ancora di più il silenzio forzoso a cui si costringono i presenti all’accaduto.
La visione dell’opera non è affatto facile, le riprese totalmente a spalla, con la camera sempre mossa, le illuminazioni non costruite ad hoc ma naturali, la recitazione e dialoghi che oscilleranno tra il surreale e il crudo, urlano a gran voce la forte autorialità e lo sperimentalismo che Vinterberg ha messo in questo film, capostipite di un manifesto intellettuale in parte auto costrittivo nella forma, ma che costringe a grandi soluzioni creative. La trama è il cuore pulsante dell’opera, che riesce a restituire perfettamente quell’emozione straniante che si prova quando si cerca di scappare, mentalmente più che fisicamente, da un’idea che terrorizza, preferendo negarne l’esistenza piuttosto che affrontarne la realtà.
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