Conversazione con Francesco Spiedo, autore di Stiamo abbastanza bene
Tra i giovani autori degli ultimi tempi, Francesco Spiedo si è distinto con un romanzo d’esordio, Stiamo abbastanza bene, che parla alla nostra generazione con ironia e semplicità, restituendo una fotografia del precariato contemporaneo. Nonostante sia ambientato nel 2016, in effetti il racconto di Andrea Lanzetta, il protagonista, sembra scritto ieri. Ho avuto una piacevole e illuminante conversazione con Francesco sul suo romanzo e sui temi che lo riguardano. Nell’intervista potrebbero esserci alcuno spoiler sul libro.
Da dove nasce Stiamo abbastanza bene? Come ti è venuta in mente la storia, forse lo spunto è stato autobiografico?
In linea generale questo gioco dell’autobiografia è stato portato subito in evidenza e io ci ho scherzato fin dal primo momento perché, in effetti, sembra molto autobiografico se si pensa che quando l’ho scritto ero a Milano e appunto venivo da Napoli. In realtà nel romanzo c’è molto poco di autobiografico rispetto a quanto accade. È chiaro quindi che è tutta finzione, dalle figure genitoriali del protagonista alla storia d’amore. Ho provato a raccontare una storia che potesse parlare a tante persone, che fosse generazionale il più possibile. Ho cercato di mettere insieme degli elementi che, in un modo o nell’altro fossero riconoscibili e anche più generici possibile. Per esempio i genitori non hanno un nome proprio, solo nel finale viene nominato il padre una volta sola e non dal protagonista ma dallo zio, e così la madre. In questo modo la maggior parte dei lettori poteva immedesimarsi. Questo è anche il motivo per cui ho giocato tantissimo con i cliché, sapevo che mi sarei mosso in un campo minato, circondato dai cliché sulla nostra generazione, sul napoletano a Milano, sull’emigrazione ecc. Mi sono detto che era inutile evitarli e anzi mi ci sono catapultato e li ho portati all’estremo.
Il pretesto per questa storia è nato quando mi sono laureato in Ingegneria alla triennale mi ero stufato di dedicarmi a questa materia così sono andato a Milano per seguire un Master di scrittura creativa alla Belleville e lì i miei docenti furono i primi a leggere degli estratti del romanzo, perfino una prima versione che portava il titolo di Il corpo estraneo. Questa versione mi fu corretta da Walter Siti e lui mi diceva sempre: “devi raccontare di quello che conosci”. Ero in una nuova città, avevo 24 anni e stavo ricominciando tutto e mi sono reso conto che l’esperienza che stavo facendo, quella di lasciare la città di origine e ricominciare daccapo era comune a tutti. Milano poi è strapiena di gente che viene da fuori. Quando poi mi confrontavo con altre persone mi rendevo conto che dicevamo tutti le stesse cose. Il dettaglio però che ci differenziava era che ciascuno di noi stava vivendo questa esperienza dello sradicamento e del ricominciare come una crociata strettamente personale, come se ciascuno di noi fosse solo contro il mondo. Invece secondo me attraversavamo e stiamo attraversando qualcosa che più universale di così non c’è. Mi dissi quindi che questa storia oltre ad essere la mia era la storia di tanti.
Vivevo a Porta Venezia che era un crocevia di personaggi interessanti, con il mio spirito di osservazione ho messo insieme i pezzi. Come Andrea ho lavorato veramente in un bar, i miei genitori sono veramente saliti a Milano a trovarmi come succede a Andrea e in uno stabile vicino a quello dove abitavo veramente ci stava un portiere che veniva dal sud.
La storia è nata anche per riscrivere e mettere insieme alcuni film per me importanti, come Così parlò Bellavista e Ricomincio da tre che per me è stato un grande riferimento, quest’ultimo dichiarato. È stato anche un omaggio che ho voluto fare a Troisi e allo stesso tempo ho notato che da Ricomincio da tre a Stiamo abbastanza bene sono passati quarant’anni ma non è cambiato niente.
Si può dire che il romanzo è una riflessione sul nostro precariato? Quello che passa dal tuo libro è una sorta di nichilismo, un voler fare le cose e allo stesso tempo un’impossibilità a farle per una sorta di noia…
…Sì è una giusta riflessione, qualcosa su cui spesso non riesco a soffermarmi durante le presentazioni o le interviste sul libro. È un aspetto questo molto tangente del libro che stride un po’ con il tono del romanzo. Spesso si arriva alla conclusione che siamo di fronte a una commedia il che vuol dire leggerezza che a sua volta chiama superficialità. Eppure la letteratura italiana ha molti esempi di letteratura del comico che con la superficialità non hanno niente a che fare. Spesso la letteratura comica viene considerata una letteratura di serie B. Questo sentimento di cui parli sta proprio nel centro del romanzo e lo vedi anche nel titolo in quel “abbastanza” che da un lato strappa un sorriso, sicuramente ha una chiave ironica, ma allo stesso tempo è una dichiarazione di come stanno veramente le cose. Non siamo abbastanza sfortunati da essere legittimamente tristi o arrabbiati perché tutto sommato le cose non è che ci vanno malissimo però allo stesso tempo non riusciamo a essere felici. Viviamo questa via di mezzo a cui siamo un po’ condannati. La mia idea era quella di dirci di mollare un po’ il colpo. La società ci vuole in un modo che è veramente senza senso: ossessione alla produzione, essere costantemente attivi, sempre performanti, dover fare sempre qualcosa come se il riposo fosse una bestemmia. Ecco la necessità di andarsene per realizzarsi, strappando completamente le radici e tutti i legami, senza riconoscere il trauma che una cosa del genere comporta, la violenza insita in una cosa del genere è qualcosa su cui riflettere. Come se fosse un gioco, una cosa da niente, l’hanno fatto tutti ci puoi riuscire anche tu, vedrai che poi passa…ma magari passa quando hai 35/40 anni e intanto hai passato quindici anni della tua vita senza neanche capire cosa ti stava succedendo, che stavi facendo e perché, che regole stavi seguendo e se ti riconosco.
Basti pensare che le regole sono diverse e che cambiare città non è un gioco di prestigio per cui tutti sono portati e che tutti possono affrontare con leggerezza come se nulla fosse. Per l’amor del cielo, siamo una società cosmopolita, vero, molto bello, siamo cittadini del mondo, tutto quello che vuoi ma in realtà questo processo è vero solo in teoria. Le abitudini e le culture delle singole città sono differenti e non necessariamente siamo in grado di adattarci e trovare il nostro posto. Soprattutto questa spinta a considerare questo stato d’animo quasi una colpa, se vai fuori e sei triste è colpa tua, sei tu che non ti adatti, sei tu che non sei pronto per il mondo del lavoro, sei tu che non ti vuoi mettere in gioco. Tutte queste illazioni poi arrivano da una generazione che è quella precedente alla nostra che, diciamocelo, non si è sudata granché: vengono da un boom economico e sono figli di chi ha effettivamente ricostruito questo Paese dopo la guerra. Oggi si ritrovano a pontificare su una situazione allucinante: il novanta per cento di noi deve andare fuori, se non va fuori si deve adattare a situazioni lavorative non soddisfacenti, magari accettando lavori per cui non hanno le competenze o per cui non hanno studiato. Tutto ciò non è affatto leggero, per non parlare di alcune categorie che nel libro non ho inserito come i camerieri o rider ecc.
Perché c’è anche questo, vai fuori per inseguire un sogno e poi ti adatti a fare miliardi di cose per campare, al limite della servitù della gleba. Ci sono situazioni in cui sei veramente da solo, con una paga misera e ti trovi in situazioni in cui devi portare quei pochi spicci a casa, per altro così pochi che sono anche ininfluenti però poi sei anche obbligato a non startene con le mani in mano: Ah ma quindi stai soltanto seguendo un master di scrittura? Eh ma nel frattempo che fai? E io infatti facevo le quattro di mattina a servire cicchetti di tequila. Ma dove sta scritto? Quale medico ci ha prescritto tutto questo?
Rispetto alla scrittura questa cosa è ancora più vera, se io voglio scrivere e mi considero una scrittrice, questa cosa non viene percepita come un impegno. Tantomeno alla scrittura si dà un valore vero e proprio…
…Sì hai centrato una cosa che riguarda la questione lavoro legato alla scrittura, diciamoci la verità di questi tempi non si vive di sola scrittura. Andrea non ha chiesto ai suoi genitori di essere folli e credere che si possa campare spacciando droga, nessuno di noi in effetti lo chiede. Per stare al passo dovremmo cominciare a essere educati al vivere da soli, a essere indipendenti, autosufficienti, e questo deve partire anche dalle famiglie e dalla scuola. È impensabile che ci si possa spostare tanto facilmente dal luogo in cui si hanno le proprie radici a un altro quando fino al giorno prima ti hanno insegnato a vivere nel nido e concepire solo quello. I nostri genitori devono prendere coscienza che se tu hai un sogno, lo devi inseguire. Inoltre non è il lavoro con cui paghiamo le bollette a identificarci, se mi chiedi cosa vuoi fare nella vita io ti rispondo che voglio essere felice, che voglio scrivere ma non che voglio fare il Professore di matematica, con tutto il rispetto per la categoria di cui probabilmente farò parte. A certe domande non voglio rispondere con la mia professione, perché molto spesso non è quella con cui mi sento realizzato.
Se poi guardi la generazione dei nostri genitori questa cosa è anche più vera, i miei hanno quasi sessant’anni e attraverso loro ho capito che aver identificato tutta la propria vita con il lavoro non è gratificante. C’è poco da fare, sei perennemente insoddisfatto. Allora, lo sappiamo che quello non basta. Quindi ben venga che quando c’è una passione la si insegue e si fa quello. Poi se mi chiedi come pago le bollette allora quella è un’altra domanda. Come paghi le bollette? Facendo il professore di matematica. E cosa fai nella vita? Racconto storie.
Questa è la risposta che dovremmo darci tutti, perché poi rischiamo di vivere un po’ scissi. Se sto aspettando di realizzarmi dal punto di vista lavorativo e aspetto di arrivare a un punto possono accadere due cose, se ci arrivo poi comunque sarò insoddisfatto perché non ci accontentiamo mai, soprattutto nell’era dell’eccessiva produzione per cui arrivati a un obiettivo se ne ricerca subito un altro. Oppure non si arriva mai all’obiettivo agognato e allora si è insoddisfatti tutta la vita.
Shopenhauer diceva che l’essere umano è desiderio, siamo destinati a desiderare sempre qualcosa…
…Tanto vale desiderare qualcosa che possiamo fare e per cui abbiamo la predisposizione, però senza avere l’ossessione per quella cosa. Cioè, se tu mi dici che vuoi scrivere ma lo identifichi con il pubblicare, quella cosa per me è una stronzata. Perché scrivere non significa pubblicare, significa raccontare una storia, pubblicare è un altro paio di maniche. Quando pubblichi diventi un autore, ma lo scrittore lo puoi fare sempre, anche senza pubblicare. Spesso alla scrittura non si dà la giusta dignità, ti capita di lavorarci con quella e di solito vieni pagato poco e niente, oppure viene considerata poco più o poco meno di un semplice passatempo quando per scrivere un romanzo ci vuole un anno e più di lavoro, nel mio caso ce ne sono voluti quattro. Quindi stiamo parlando di qualcosa che dovrebbe essere osservato con un minimo di attenzione. Purtroppo c’è la tendenza a considerare la scrittura, lo sforzo artistico e tutto ciò che banalmente non sia produttivo e che non porti un ritorno economico chiaro ed evidente, come qualcosa che non serve.
Quello che dici mi fa riflettere su un’altra cosa, ho effettivamente notato, appunto parlando con diverse persone della nostra età all’incirca che siamo stati indottrinati con l’idea che la felicità sia un approdo, un punto di arrivo. Di recente mi sono trovata a pensare proprio a questo e mi sono chiesta: dove sta scritto che io devo arrivare a un certo punto e solo lì sarò felice. Non può essere che il mio percorso di vita con le cose che faccio e le cose che mi capitano, mi possano dare quei momenti che Totò definiva “attimi di dimenticanza”, la felicità.
Questa cosa si vede nel libro, c’è molta confusione su questo punto, perché tu pensi: “solo quando avrò raggiunto quella cosa lì sarò veramente felice” e te lo ripeti così tante volte che finisci per convincerti di essere una persona infelice.
Assolutamente. E io con il romanzo ho provato a portare all’estremo questa cosa. Volevo dire, stiamo sbagliando tutti quanti e stiamo andando a sbattere la testa contro il muro. Sono un mezzo matematico e sono un grande appassionato delle dimostrazioni per assurdo. Per me le dimostrazioni per assurdo sono filosofia pura e sono qualcosa di bellissimo. Mi spiego, io non ti voglio dimostrare che una cosa è vera perché lo dico io. Tu dici che questa cosa è così e io ti voglio dare ragione però facciamo una cosa, diciamo che questa cosa che hai detto sia vera ok? Mettiamo in moto tutto il mondo partendo da questa tua verità e vediamo dove andiamo a finire. In matematica arrivi a un paradosso per cui hai la dimostrazione che il punto di partenza era sbagliato. Quindi viene dimostrata per assurdo un’altra verità, il suo contrario. Nel romanzo ho fatto la stessa cosa, ho detto: secondo me stiamo andando a finire tutti male e non riusciamo a viverci bene il tempo che viviamo per queste ragioni che ci siamo detti. Secondo me poi c’è anche una mancata educazione sentimentale per chi ha la nostra età. Noi viviamo in un passato in cui la famiglia è l’obiettivo finale, poi si è sgretolato il nucleo familiare e la famiglia non valeva più niente, fino ad ora in cui non abbiamo capito come ci si deve rapportare con il prossimo e cosa significa essere una coppia, cambiare sempre, non cambiare mai, stare da soli o avere cento persone, avere delle relazioni aperte. Ecco anche su quest’ultimo punto c’è tanta libertà di scelta ma allo stesso tempo siamo senza guida. Se non siamo pronti a fare un percorso di auto scoperta, in cui ciascuno di noi deve mettersi nella comprensione di sé e se non si fa questo si perde la bussola. Si guarda a modelli che non esistono più e non si combacia ciò che si vuole con ciò che si cerca di fare.
Per questo ho voluto mettere Andrea in una situazione per assurdo: facciamo che Andrea segue tutto quanto la società contemporanea ci dice di fare e vediamo dove finisce. Finisce male, chiaramente, in un imbuto dal quale non può uscire se non prendendo consapevolezza che quanto gli hanno sempre detto era una balla. Soltanto così smonta un pezzo per volta tutti i fili che lo tenevano legato, rendendosi conto che non c’è niente che lo rende infelice. A meno che non passi un guaio ovviamente, ma in generale molti di noi non hanno reali motivi per stare male.
Quello che dicevi tu, il non riuscire a godere di quello che si ha. Quando mi dicono: Io vorrei scrivere, domando sempre Perché vuoi scrivere? E spesso mi sento rispondere: Perché voglio pubblicare, perché la gente mi deve leggere.
Questo non va bene, perché il narcisismo porta comunque all’insoddisfazione, bene che ti va ti leggono mille persone e vale la pena fare tanta fatica solo per farti leggere?
Quando io scrivo mi dimentico di quello che sto facendo. Si trova una situazione di pace in cui si sta bene e poi se pubblichi o no questo non deve ossessionarti.
La vita normale ci ossessiona già tanto, non dovrebbe farlo la scrittura.
Fai molto riferimento alla matematica, vorrei che mi raccontassi di questo amore per la matematica. Questa cosa che a un certo punto il protagonista inizia a contare mi piaceva molto, perché usi i numeri come dei cardini, dei punti di riferimento…
…I numeri mettono ordine nel suo caos. La matematica è un’altra forma di linguaggio, è un modo per interpretare il reale, quello che ti accade. Rientra nella sfera razionale. La matematica comprende in un certo senso un pizzico di follia e si sposa bene con un carattere ossessivo. Io volevo che Andrea avesse qualche “disturbo mentale” ma non perché credo che la nostra generazione sia disturbata ma anche sì. Abbiamo un po’ tutti delle nevrosi, chi più chi meno. Ho voluto darne una al protagonista che non fosse così lampante, che fosse anche un po’ ironica. È una cosa in effetti buffa che una persona si metta a contare e che a volte durante le conversazioni si metta a contare come un cretino. Mi serviva come gioco da un lato e dall’altro per sottolineare delle coincidenze che ci possono capitare, questo sincronismo tra i numeri: entrambe le ragazze con cui il protagonista ha una relazione hanno un nome di cinque lettere. La droga diventa un’escalation nella sua vita e lui ripercorre i nomi delle diverse sostanze e ognuna ha una lettera in più nel nome rispetto alla precedente. Quella è per esempio una citazione di certa letteratura francese, Raymond Queneau per esempio o altri, per cui la matematica faceva parte della vita quotidiana. Lewis Carroll o Italo Calvino anche giocavano tanto con la matematica per raccontare storie e poi l’ingegneria sta piuttosto nel riuscire a organizzare una storia, avere un quadro bene organizzato della cosa. Una critica che mi è stata mossa è che nel romanzo tutto trovasse una spiegazione, gli eventi si intrecciavano in un cerchio perfetto. Per me era importante che fosse così ma non perché si trattava di un pretesto formale ma per evidenziare una cosa: quando qualcuno decide di affrontare le proprie paure in qualche modo i conti tornano. Magari non subito, a un certo punto le cose si sistemano da sole. Tutta la matassa costruita su un grande equivoco si mette a posto.
Una cosa che ci tengo a dire è questa: spesso mi è capitato di affrontare la questione che se Andrea avesse saputo fin da subito la verità di Luisa il romanzo non sarebbe esistito.
…Quello è il motore della storia…
…è il motore apparente, una falsa partenza. Andrea avrebbe trovato un altro pretesto per lasciare Napoli. La questione amorosa nel romanzo ha un’importanza spropositata, tutti noi diamo molta troppa importanza alla famosa goccia che fa traboccare il vaso, cogliamo la palla al balzo e stravolgiamo tutta la nostra esistenza. Quindi ecco se non fosse stato quello, Andrea avrebbe trovato un altro pretesto e il quadro da un punto di vista ingegneristico – strutturale, avrebbe retto lo stesso.
Rispetto al finale del romanzo, quello che capita ad Andrea è un evento che nei termini della tragedia greca si chiamerebbe Deus ex machina. Rispetto al discorso della matematica si capisce naturalmente che questa è una cosa calcolata ma volevo chiederti come ci sei arrivato.
In realtà c’è una doppia riflessione da fare, la prima è che in una prima versione Luisa muore e Andrea deve tornare a Napoli per affrontare la realtà e superarla. Arriva a Napoli, vuole rivedere Luisa ma proprio il giorno del suo arrivo Luisa è morta. Questo evento era di per sé troppo traumatico e avrebbe deluso il lettore che si aspetta questo fatidico incontro per trecento pagine. A parte l’eccessiva cattiveria che ciò avrebbe comportato, non riuscivo a chiudere con gli altri personaggi, perché in realtà i personaggi che evolvono sono tanti. Oltre ad Andrea, tutti evolvono, anche l’altra ragazza Clara ha un minimo di evoluzione.
Chi non evolve sono i genitori, i cinquantenni sono tutti fermi, immobili. Chi è più vicino ai giovani sono i vecchi, compreso zio Toni che più di tutti riesce a capire Andrea. Mi sono ritrovato con questo personaggio senza sapere che farci e allora mi sono detto che zio Toni doveva chiudere il suo arco con la morte. Toni ha girato il mondo, ha vissuto ed è ricco e l’eredità è ciò che arriva nel finale di tutti i romanzi di formazione, soprattutto all’inglese. Nell’ottica del capitalismo post industriale i soldi fanno la persona, e quindi una volta che hai ottenuto la tua eredità e magari il matrimonio ti puoi dire realizzato. Questa è una morale che poteva andare bene fino a un po’ di tempo fa.
Ecco ho voluto prendere tutti gli elementi del romanzo di formazione: il viaggio, l’amore, la famiglia verso cui si torna per fare pace e l’eredità che risolve tutti i problemi e ho voluto scardinare questi punti. Noi non possiamo più goderne. In passato queste cose bastavano, oggi sono totalmente inefficaci, non sufficienti. Andrea nonostante tutto sa bene che queste cose non gli bastano, il vero finale sarà quando riuscirà a parlare con Luisa.
Hai mai pensato a scrivere un seguito di Stiamo abbastanza bene?
Non è mai stato pensato come un qualcosa che possa avere un seguito. Per me dopo l’incontro con Luisa, il protagonista non è più interessante e non lo sarebbe neanche per il lettore. Il cerchio si chiude con l’incontro finale…
…Però devo dirti che proprio per la sua non compiutezza e per questa dimensione sospesa della storia io mi aspetto di rivedere Andrea tra le pagine di un’altra storia, che fa altre cose, che sta ancora lì a contare…
…Si sta mangiando i soldi dello zio! Quello che succede dopo non lo so. Per il momento sta in vacanza.
Ti dico la verità, come molti autori che mi piacciono condivido l’idea di creare dei piccoli universi. Nel prossimo romanzo farò in modo che qualcuno dei personaggi di questo, anche minori, ritorni. Farò anche in modo che si abbiano notizie di Andrea. Magari si ribalteranno delle situazioni e Andrea sarà una voce fuori campo. Ora con il nuovo romanzo sono anche in fase abbastanza avanzata.
Puoi accennarmi qualcosa?
Sarà un romanzo sempre aderente al nostro tempo, cercherò di raccontare un altro aspetto importante della nostra contemporaneità. Non il Covid perché l’ambientazione è il 2019 ma vi si troveranno degli elementi che il covid ha reso chiari e molto più evidenti. Non scrivo storie impegnate, non faccio l’attivista o l’opinionista, voglio solo scrivere storie in cui le persone possano identificarsi e voglio farlo con ironia, in modo comico. Sarà perché sono napoletano ma credo che la vita abbia tanto di ironico e al momento c’è bisogno di ironia perché viviamo in una società troppo seriosa.
Il finale del tuo romanzo in effetti è un finale ironico…
Ma sì, era una presa per il culo. I milioni! Sai come stai bene? No, sarai semplicemente un depresso con i soldi. Sempre abbastanza bene stai. I soldi non tolgono quell’ “abbastanza”. Anche a rischio di stare male, affrontando dolori privazioni e altro per inseguire i propri sogni, piuttosto che galleggiare in questo “abbastanza bene” che non scontenta nessuno ma non ti fa felice. La vita è la tua, non è né quella del tuo datore di lavoro, né quella dei tuoi genitori o chi altro ha detto come si deve fare nella vita…
All’inizio del libro tu hai scritto questa dedica: A quelli che fanno ancora finta. Chi sono?
Se metti “ancora” nella frase, capisci che mi rivolgo ai cinquantenni. Nel romanzo ci sono tutte le generazioni e la cosa bella è stata che è stato letto non solo da chi ha la nostra età e ci si è ritrovato ma anche da persone di una certa età, la generazione di mia madre per esempio, sono riusciti a capire il messaggio di questo libro. Non è facile capirlo e scontrarsi con questa realtà. A volte succede di non parlarne neanche di certe cose, loro restano fermi sulle loro posizioni e noi sulle nostre, non riusciamo proprio a capirci. Fargli vivere questa storia ad alcuni ha fatto aprire un po’ gli occhi. Altre persone invece non ci hanno voluto credere, perché continuano a leggere la realtà secondo le proprie regole. Ma le regole sono cambiate.
Se una persona decide di andare fuori patria, come dicevo, deve essere educato a farlo ma senza passare né per un eroe né per un infame che ha lasciato mamma.
Sembrano sciocchezze ma poi confrontandomi con amici mi rendo conto che non sono i chilometri, l’emigrazione come concetto è lo stesso sia che vai a Roma sia che vai in Australia.
Come fai a costruire qualcosa se c’è sempre qualcuno intorno a te che ti fa capire in modo palese o velato che sia che quello comunque non è il tuo posto. Il londinese che se ne va a Berlino a vivere è un gran figo che sa campare, se il Milanese, magari di famiglia bene, parte per andare all’estero sta facendo un tirocinio, un’esperienza formativa per il lavoro, chi viene da Roma in giù sta emigrando. Ma perché?
Come se poi l’emigrazione come parola fosse una cosa brutta.
Siamo poi in un’epoca di grande delocalizzazione, ormai il luogo fisico in cui si vive è relativo, eppure si continua con questa ossessione molto italiana, del luogo che ti realizza. Da un lato è una cazzata, dall’altro lato è purtroppo vero. Per questo noi italiani siamo paradossali e noi della nostra generazione ci stiamo in mezzo. Devono cambiare i paradigmi, il senso delle cose non ce lo può dare l’individualità eppure siamo nel mezzo di un delirio narcisistico.
C’è la community ma non c’è la comunità, siamo tutti uguali e ci piacciono le stesse cose. Molta letteratura italiana contemporanea si sta interessando di questi temi e della questione sentimentale della nostra generazione.
Proprio sulla questione amorosa, il tuo romanzo mi ha fatto riflettere su una cosa importante, oggi molti della nostra generazione hanno un’idea fissa dell’amore. Una sorta di schema in testa e tutto ciò che non corrisponde a quello schema non è amore. Perché non rientra in quel calcolo. Così fa Andrea, per lui Luisa è l’amore, tutte le altre che non sono lei non sono amore. Clara potrebbe essere una possibilità ma lui non la coglie perché lei non rientra nell’equazione…
Esatto. Proprio per questo ho voluto scrivere il romanzo in prima persona. Per esasperare il fatto che era tutto dal punto di vista di Andrea e tu lettore comprendi quanto un solo punto di vista possa essere limitante. Il proprio è un punto di vista fra i tanti, non è sacro, bisognerebbe essere pronti a intrecciarli i punti di vista e questo, ti faccio un piccolo spoiler, sarà oggetto del prossimo romanzo, dove giocherò con cinque punti di vista.