Un altro giro: l’estasi come condanna e salvezza dell’animo. Recensione
Vincitore agli Oscar 2021 come miglior film straniero, Un altro giro rimarca lo stile caratteristico del regista Thomas Vinterberg, già apprezzato per importanti opere quali Festen e Il sospetto. Prima di parlare del film vero e proprio, vale la pena fare un accenno a Dogma 95, conosciuto anche come Voto di Castità, il manifesto ideologico firmato assieme a Lars Von Trier per salvare il cinema autoriale dalla deriva moderna, fatta di effetti speciali e investimenti miliardari. L’idea portata avanti da questo manifesto era di un cinema autentico, senza effetti speciali e oggetti di scena, il tutto girato con macchine da presa a spalla, su pellicola e soprattutto sulla location, senza utilizzare teatri di posa o riprese in studio. Il tutto per mettere al centro la recitazione degli attori e il tema centrale del film, mai di genere.
Un altro giro prende a piene mani dallo spirito del manifesto, progetto ormai concluso e con poco riscontro (in tutto vennero girati circa 35 film seguendo quelle regole), con una regia scevra da esercizi di stile o particolari virtuosismi tecnici, con inquadrature sempre in movimento e con un magnifico lavoro sui volti, per esaltarne al massimo i tratti e le emozioni, in pieno stile scandinavo. L’incipit è molto semplice: Martin, Nikolaj, Tommy e Peter sono quattro professori che, insoddisfatti dell’ambiente di lavoro e della loro vita privata, due di loro hanno problemi con il partner, gli altri due sperimentano invece la solitudine, decidono di sperimentare la teoria del filosofo Finn Skarderud, secondo cui l’uomo ha un deficit dello 0,05% di tasso alcolemico; iniziano così a consumare piccole dosi di alcol durante la giornata, fino alle 20:00 e mai nel weekend, proprio come dettato da Hemingway, per testare gli eventuali effetti positivi sulle performance sociali.
Senza approfondire oltre la trama per evitare spoiler di sorta, Un altro giro non è affatto facile, è fortemente europeo nello stile narrativo e autoriale nella realizzazione, la colonna sonora è ridotta all’osso per dare spazio al climax emotivo dato unicamente dalla recitazione degli attori che, nel silenzio delle ambientazioni, esplode in un crescendo sempre più forte, stratificato e complesso. Il film non va inteso come una critica all’alcol, ma come un inno alla vita, alla sua bellezza, ai suoi fallimenti. È un viaggio dei personaggi nel loro animo, nel loro tentativo di scrollarsi di dosso una monotonia che soffrono, costretti a sopravvivere alla loro stessa esistenza, perché ormai “non sono più gli stessi di un tempo”.
Nel film ci saranno vincitori e vinti, tutti legati dallo stesso filo rosso: il rapporto con la fallibilità. Accettare il fatto che si possa sbagliare, non essere perfetti, sarà la chiave di volta dei vari personaggi per respirare una nuova aria vitale o soccombere all’idea di essere imperfetti. Baudelaire diceva: “Bisogna sempre essere ubriachi. Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi”. L’alcol assume nell’opera un valore metaforico: lo strumento (scorciatoia o condanna) per giungere in uno stato estatico che permetta di osare, di vivere e non sopravvivere, di prendere la propria esistenza e viverla, senza lasciarsela scorrere addosso finché non sia troppo tardi e, in un moto catartico, accettarne tutte le sue mille sfaccettature, dal piacere alla sofferenza, dalla leggerezza fino al dolore, perché è il sentire tutto questo che rende l’uomo vivo.