La nomina della serie “Emily in Paris” ai famosi Golden Globes nella categoria commedie, ha fatto, e non poco, storcere il naso agli esperti di serie tv, addetti al settore e forse persino ai suoi stessi writers. Fortunatamente il rischio è stato sventato: Emily non ha conquistato la mente dei critici, ma ha sedotto il cuore del pubblico. Facciamo però un passo indietro. “Emily in Paris” è una serie Netflix uscita nell’ottobre 2020. Creata da Darren Star, racconta le vicende di Emily, una ragazza americana che, grazie all’improvvisa gravidanza del suo capo, viene scelta per lavorare in un’agenzia di marketing, Savoir, nella bellissima cornice di Parigi. Emily è incaricata di svecchiare le ormai vetuste campagne pubblicitarie dell’azienda europea offrendo “un punto di vista americano”. Sognatrice dal gusto naïf, corona finalmente il sogno di vivere nella città più romantica e alla moda di sempre. Quali lati oscuri può celare una così meravigliosa esperienza?
La città è scenario di numerose insidie per la nuova arrivata: Emily affronta le crescenti ostilità dei colleghi, restii al suo lavoro di modernizzazione. Anche dal punto di vista sentimentale sembra navigare su acque torbide: lasciata dal suo ragazzo, fa la conoscenza di Gabriel, il bel vicino di casa francese, che si scoprirà essere il fidanzato di una nuova amica. Escluso Gabriel dal suo raggio amoroso, si getta in una serie di inverosimili relazioni, tutte naufragate. Gli ostacoli a cui la protagonista fa fronte sono però fintamente complessi: essi si rivelano superabili in maniera del tutto banale. La ragazza seppur vittima di disavventure, agli occhi del pubblico, è inspiegabilmente fortunata: giovanissima ha l’opportunità di andare all’estero, indossare abiti super costosi, vivere nel centro di Parigi in una casa che sa di casa e non di bunker atomico. Emily non sembra aver bisogno di lottare per ottenere ciò che disperatamente desidera: in maniera del tutto casuale fa nuove amicizie al parco e i ragazzi cadono ai suoi piedi. Lo spettatore, non spaventato dalle insidie della singola puntata, ha la perfetta consapevolezza che si risolveranno al termine dell’episodio. Eppure, in un panorama seriale saturo di prodotti audiovisivi, dove tutto sembra essere già stato detto ma comunque si continua a dire, “Emily in Paris” si fa strada tra i telefilm più visti, sghignazzando in faccia alle serie definite “complesse”.
Rilasciata in un periodo in cui l’umanità è stata costretta a chiudersi a riccio per sopravvivere, in cui i ragazzi e non solo, sono stati bombardati da notizie nefaste e terrificanti, hanno perso il lavoro, amici e certezze, un prodotto come “Emily in Paris” ha rappresentato un faro. La sua mediocrità è stata la nostra. Ha permesso agli spettatori di diventare superficiali quando il mondo pregava loro di non esserlo. “Emily in Paris”, seppur cavalchi gli stereotipi e privi i personaggi di profondità psicologica, è una soluzione di intrattenimento, indipendentemente dal genere o dall’età. Un uomo di 60 anni o una ragazza di 20, possono fruire del prodotto, traendo beneficio dalla sua semplicità, senza che in loro si attivino processi di identificazione con l’irreale storia di Emily.
A breve uscirà la seconda stagione e ci si chiede in quali condizioni verserà il mondo. “Emily in Paris” si propone come la serie adatta ad una cena tra amici, quando si è stanchi e soli o se non si ha nient’altro da vedere. Offre al pubblico la possibilità di spogliarsi dalle sovrastrutture culturali per godere della sua facilità di narrazione. Trasforma lo spettatore in un osservatore profano della vita ideale e perfetta di qualcun altro; un’esistenza, che con molta probabilità, non sarà mai simile alla sua.
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