Rifkin’s Festival di Woody Allen, il cinema come terapia e autoanalisi
Woody Allen continua a mantenere il ritmo del canonico film annuo e con Rifkin’s Festival arriva a quota 50 lungometraggi nella sua, spero ancora lunga, carriera. Film del 2020, ambientato durante il Festival Internazionale del Cinema di San Sebastiàn in Spagna, nel pieno delle rassegne stampa, premiazioni, cocktails party e tutti gli eventi mondani che accompagnano il mondo dello spettacolo, è il classico film alleniano in cui ricorrono tutte le tematiche che hanno reso celebre il regista: il nichilismo, l’amore, la morte, la vita.
Mort Rifkin, interpretato da Wallace Shawn (attore già visto sia in Radio Days che nell’indimenticabile descrizione delle sue capacità da amante in Manhattan), è un anziano alle prese con la scrittura del suo romanzo che forse non vedrà mai la luce ed ex professore di cinema, accompagna la giovane moglie Sue (Gina Gershon), addetta stampa di un regista francese emergente, al Festival Internazionale del Cinema di San Sebastiàn. Mentre la moglie è sempre occupata, sia a flirtare che alle prese con il regista Philippe (Louis Garrel, che ha vestito i panni di Alfred Dreyfus ne L’ufficiale e la spia di Roman Polański), Mort si ritrova a riflettere sulla sua vita, fino a incontrare una dottoressa che, attraverso la reciproca compagnia iniziata con la presenza costante di Mort nel suo studio millantando malesseri, gli farà mettere in dubbio alcune sue convinzioni.
La trama, non particolarmente complessa, fa da sfondo al viaggio esistenziale del protagonista, palese alter ego dello stesso Allen, caratterizzato da dubbi molto umani sulla sua vita; se abbia fatto o meno le scelte giuste e se quel romanzo, simbolo della sua levatura culturale, sia effettivamente la via giusta per affermarsi come quello che crede di essere o se resterà semplicemente un uomo comune, illuso da manie di superiorità intellettuale.
Spesso, parlando con l’antipatico regista francese, Mort si riempirà la bocca di importanti personaggi del cinema: Godard, Fellini, Bergman; proprio per sottolineare il distacco che prova dal suo interlocutore ma, noi spettatori, vediamo semplicemente un uomo non particolarmente realizzato, anzi frustrato dalla sua condizione attuale, che poco alla volta si rende sempre più conto dell’allontanamento dalla moglie.
Sarà proprio il cinema lo strumento terapeutico che permetterà a Mort di avere “epifanie” in grado di fargli aprire gli occhi. I sogni che farà durante la notte saranno divertenti adattamenti e citazioni a pietre miliari del cinema: Allen rimetterà in piedi scene di “8 e mezzo”, “Fino all’ultimo respiro”, “Quarto Potere”, “Il posto delle fragole”, tutte con protagonista Mort che affronta eventi della sua vita e ci riflette su.
L’incontro con la dottoressa inizierà a fargli credere che forse il romanzo non sia una buona idea, facendo maturare quella sindrome dell’impostore tanto cara ad Allen, fino ad arrivare all’ultimo sogno, quello de “Il settimo sigillo”, in cui Mort affronterà la famosa partita a scacchi con la Morte, interpretata da un perfetto Christoph Waltz, che gli consiglierà di consumare frutta e verdura, evitare il fumo e i grassi saturi per ritardare il loro fatale appuntamento.
Insomma, non un film capolavoro o epocale, ma un buon film, sempre di buona fattura di un autore così prolifico e desideroso di mettere in piedi un discorso sull’essere umano e su se stesso attraverso i suoi personaggi che vale la pena andare in sala a vederlo e, tra una risata e un’altra, farsi anche qualche domanda.