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Mank: la magnifica finta ode di David Fincher alla vecchia Hollywood

Il talentuoso regista americano David Fincher nella sua carriera ha ricevuto molti riconoscimenti per il suo genio, ma tra questi, una delle qualità che non gli viene riconosciuta abbastanza è la leggerezza. In un certo senso è comprensibile, visti i temi e i soggetti dei suoi film: serial killer, imprenditori ossessivi, manipolatori della realtà stessa, insomma non si può dire siano soggetti da prendere a cuor leggero.

Eppure, la questione della manipolazione, così profondamente e duramente trattata in “Gone Girl” del 2014, è in un certo senso una forma di gioco, da questo punto di vista possiamo rivalutare anche la padronanza del linguaggio cinematografico di Fincher come una forma di rappresentazione giocosa. A questo proposito credo che il modo più giusto di guardare a “Mank”, il suo ultimo film sulla Hollywood degli anni ’30 e ’40 e sullo sceneggiatore di un’opera particolarmente famosa e iconica, sia quello di intenderlo come il lavoro più ludico di Fincher.

La chiave è proprio lì, nella presentazione, Fincher e la sua troupe, il direttore della fotografia Erik Messerschmidt (vincitore del premio Oscar come migliore fotografia), il montatore Kirk Baxter, il supervisore del suono Ren Klyce, il production designer Donald Graham Burt, e molti altri, lavorano con strumenti cinematografici all’avanguardia, in gran parte rivolti al digitale, ma nonostante questo enorme potenziale si limitano a creare un bianco e nero, dove vengono messi persino dei piccoli cerchi agli angoli dei fotogrammi per creare l’illusione dei cambi di bobina di una volta, proprio in questi dettagli si coglie il lavoro dell’artista che ci sta prendendo in giro con classe. L’inquadratura degli anni ’30 è larga piuttosto che quadrata, andando contro la logica dei tempi, il formato largo infatti venne introdotto solo nel 1953, esattamente l’anno in cui il protagonista del film morì. Inoltre, il bianco e nero qui non è un bianco e nero nitido alla Gregg Toland, né un bianco e nero scuro alla Stanley Cortez, è più un bianco, nero e argento cremoso, sognante, a volte quasi lynchiano. Alla fine Fincher in “Mank” non sta cercando di ricreare l’atmosfera di un film che potrebbe essere stato fatto durante il periodo d’oro alla vecchia Hollywood, come dovrebbe essere, o all’uomo che è stato co-creatore e sceneggiatore di “Quarto potere” di Orson Welles nel 1941, sta facendo un tributo, probabilmente al padre giornalista/saggista Jack Fincher.
Quello che ne esce è una ode, del tutto fittizia, alla vecchia Hollywood ridisegnata sui gusti del regista senza volerne fare un glorioso tributo. Ma allora cosa stiamo guardando?

Non ne sono ancora del tutto sicura, quello che posso dire con certezza è che Gary Oldman nel ruolo principale e un superlativo, Fincher ha creato un film provocatorio, puntuale, spietatamente divertente e per certi aspetti, in particolare verso la fine, un po’ esasperato. Qualunque cosa sia, “Mank” non è, come molti hanno proclamato, una “lettera d’amore” alla vecchia Hollywood, la capitale cinematografica degli Stati Uniti ritratta è quella in cui quasi nessuno è felice del proprio lavoro o orgoglioso di esso. Eccetto forse il magnate Louis B. Mayer, il cui piacere deriva dalla sua venalità. Mayer, interpretato da Arliss Howard, è ridisegnato per assomigliare non solo al vero Mayer, ma anche a un omuncolo avvizzito che esordisce dicendo, “Questa è un’attività in cui l’acquirente non ottiene altro coi suoi soldi che un ricordo. Quello che compra appartiene ancora a chi glielo ha venduto. È questa la vera magia del cinema e non permetta a nessuno di contestarla”, così si presenta e presenta il suo personaggio a Herman e al fratello minore Joseph (Tom Pelphrey) mentre camminano verso una riunione dove lo stesso Mayer annuncia la riduzione degli stipendi al gruppo di impiegati che chiama “famiglia”.

Per quanto riguarda il suo protagonista, lo scrittore Herman J. Mankiewicz, un giornalista e sceneggiatore di New York che ha cercato fortuna a Hollywood, ma trovato solo disgrazia, a cui viene proposto di scrivere quella che, per alcuni, potrebbe definirsi la più grande sceneggiatura americana, quella che gli ha offerto la possibilità di redenzione, in “Mank” viene disegnato, fino dalle prime scene come uno sconfitto e un’anima persa.

Mankiewicz, l’uomo e lo scrittore, giace costretto a letto in un remoto ranch, dettando quello che sarebbe diventato “Quarto potere” a una donna inglese (Lily Collins) il cui marito si trova in guerra. Sono solo lei, una governante tedesca e l’allora sovrintendente del Mercury-Theater, John Houseman (Sam Troughton), i custodi dello scrittore durante il suo processo creativo, parte della missione di Houseman è quella di mantenerlo lontano dal vizio dell’alcool. A questo scopo, veniamo a sapere che Orson Welles ha regalato a Mankiewicz una scorta privata di quello che sembra whisky ma che in realtà è Seconal, un barbiturico ad azione breve con proprietà sedative ed ipnotiche, da somministrargli a fine giornata di lavoro. Questo film è palesemente un’opera di finzione estrapolata dai fatti, per tutto il film l’allora ventiquattrenne Welles viene indicato come un “giovane prodigio”, quindi l’idea che la sua competenza si estendesse alla farmacopea è un tratto particolarmente ostentato in questo film distorto.

Nelle sue fatiche, Herman ricorda anche un particolare groviglio di relazioni, una con Mayer, un’altra con il magnate dei media William Randolph Hearst (Charles Dance) che regala al film un energico sketch di caratura magistrale e una con la sua amante Marion Davies, interpretata da Amanda Seyfried, l’unica attrice del film che si può dire dimostri una certa affinità con la vecchia Hollywood, una bella attrice comica che Hearst voleva trasformare in una diva della drammaturgia. Mank intrattiene personalità potenti del settore e crea un legame con la Davies che tende all’intimità, senza mai raggiungerla del tutto.

L’isolamento del protagonista, sottolineato potentemente anche da una struggente colonna sonora, danno a Fincher l’opportunità, nell’ultimo terzo del film, di architettare discreti intrecci narrativi in cui Mankiewicz riceve la visita di vari personaggi che lo supplicano di abbandonare la sua follia che rischia di mandare all’aria tutto, soprattutto la sua carriera, Hearst è ancora un uomo potente e può rovinarlo. Ma Mankiewicz chiaramente non crede di potersi rovinare più di quanto non lo sia già, dunque vuole essere conosciuto per questo lavoro.

Il che lo porta al suo confronto finale con Welles, finché “Mank” tiene a distanza il grande regista il film resta su un terreno solido, ma quando Welles arriva sulla scena e rifiuta la richiesta di credito da parte di Mankiewicz, nonostante il contratto iniziale e le trattative che hanno fatto guadagnare allo scrittore il credito nei titoli di “Quarto potere”, diventa tutto un po’ grottesco e arriva una violenta reazione di Welles. Il problema non è l’attore Tom Burke, che fa un’approssimazione più che giusta di Welles di quell’epoca, il problema è il materiale scadente con cui si è dovuto cimentare, che non attinge a un repertorio credibile del famoso regista, ricordato per il suo atteggiamento cruento, ma troviamo quasi una caricatura su un argomento di poco conto.

Ma nonostante tutto, anche quando il film oscilla, resta comunque coinvolgente, come la chiacchierata tra Herman e Hearst nel loro primo incontro mentre Hearst è seduto su un gigantesco carrello per la macchina da presa durante la supervisione di uno dei film della Davies. La messa in scena, le riprese e il montaggio rappresentano Fincher al suo massimo dell’ispirazione, creando una magnifica atmosfera trasognante di un periodo storico che non tornerà più, oltretutto siamo consapevoli che quello che stanno girando in realtà è materiale scadente.

La forza di “Mank” in realtà non sta nella storia, che tra l’altro per un pubblico non americano rischia di essere assolutamente senza senso in alcuni punti, ma sta tutta nella finzione ricreata da Fincher, nel farci vivere una finta vecchia Hollywood dove le storture sono evidenti, più di quanto, si faccia finta, non ce ne siano mai state, tutto è magnifico sotto i riflettori di una pagina falsa e patinata di storia americana, ma quanto è bella dalla nostra prospettiva!

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