La serie Netflix The Serpent racconta la terribile storia vera dell’assassino Charles Sobhraj e il lato oscuro della cultura hippy. Quando questa serie in otto puntate ha fatto il suo debutto sulla piattaforma di streaming, è stata accolta con recensioni contrastanti. Abbiamo davvero bisogno di un’altra storia su un serial killer? Il fascino dei due protagonisti, Tahar Rahim e Jenna Coleman, non rischia di rendere un po’ troppo glamour questo assassino e la sua bella a cui ha fatto il lavaggio del cervello? Devono esserci così tanti flashback? Una volta spogliato della sua perfetta ambientazioni anni ’70 cosa dice in realtà?
La miniserie ha impiegato un po’ di tempo per dissipare queste riserve e chiarire cosa stava realmente facendo, da allora è iniziato un passaparola dirompente portandola a essere tra le serie più viste sulla piattaforma.
The Serpent racconta tanto un di periodo storico quanto di un uomo, Charles Sobhraj che ha drogato e ucciso almeno una dozzina di persone tra il 1975 e il 1976, il periodo che segue l’umiliante fuga degli Stati Uniti dal Vietnam, periodo storico che la serie ci tiene a sottolineare con una particolare accuratezza a delinearne la decadenza e il degrado. La sottocultura dei viaggiatori nel sud-est asiatico assomiglia un po’ a quella della California degli anni ’60 di Joan Didion, attraversata da giovani smarriti che cercano di ritrovare se stessi nella religione, nella droga o semplicemente in luoghi sconosciuti. In “Slouching Towards Bethlehem”, la Didion scrive di coloro che “andavano alla deriva da una città all’altra, spogliandosi del passato e del futuro come i serpenti si spogliano della loro pelle”. La serie regala ai malcapitati alcuni momenti iniziali di gioia, ma una volta che si imbattono in Sobhraj e nei suoi complici, tutto ciò che cervacano: libertà, avventura, novità, scoperta di sé, diventa solo un orrendo incubo. Quello in cui ci troviamo è un mondo in cui è fin troppo facile sparire e non essere trovati.
Sobhraj, nato a Saigon da padre indiano e madre vietnamita, cresce in Francia in una famiglia infelice, è un uomo vuoto che usa il suo smarrimento come un superpotere. Tahar Rahim lo interpreta con una calma sociopatica e al limite del plastico, ricorda un Ken travestito da gigolò degli anni ’70. Rivestendo il ruolo del sofisticato commerciante di gemme Alain Gautier e adottando le identità delle persone che deruba e uccide ogni volta che ha necessitò di viaggiare senza lasciare traccia, la sua diventa una perversione alla ricerca della libertà e della rinascita negli anni ’70: è un uomo pericoloso che potrebbe essere ovunque, fare qualsiasi cosa e lasciarsi la vita alle spalle in un attimo.
Ora abbiamo tutti gli strumenti per descrivere il comportamento di Sobhraj, un manipolatore che abusa del controllo coercitivo per catturare le sue vittime. Come Charles Manson, un altro assassino predatore che ha trovato una scappatoia nel sogno hippy, Sobhraj identifica fatali fragilità psicologiche nelle persone che recluta nella sua famiglia fittizia. Fa fiorire la timida cattolica canadese Marie-Andrée Leclerc prima di farla marcire, dà all’ingenuo Dominique la speranza di aiuto prima di dirgli che non può più tornare a casa, entrambi i personaggi sono combattuti tra le loro vecchie e nuove identità fino a quando tutto non si sgretola, perché la maggior parte delle persone non è mentalmente pronta a un simile trauma, cancellare certi avvenimenti per ricominciare come se nulla fosse.
Sobhraj riesce a carpire i bisogni e le necessità delle sue vittime toccando i tasti più sensibili delle loro debolezze, come il semplice bisogno di assistenza essendo lontani da casa, oppure un po’ di comprensione e buona compagnia. Manipola le menti creando un rapporto di fiducia grazie anche alle sue buone maniere. Non sarebbe scortese rifiutare un drink? Perché dovresti sospettare di una mano amica che ti viene in soccorso durante un malessere? Come potresti pensare che ne sia anche la causa? Proviamo a immedesimarci nel tempo, quando non si aveva a disposizione tutta la tecnologia che abbiamo oggi, se ci fossimo trovati in terra straniera, davvero molto lontani da casa e fossimo in seria difficoltà, difficilmente non avremmo accettato la cortesia di una persona del posto che si rende tanto disponibile nell’aiutarci. Alcuni tra gli spettatori più anziani, che hanno viaggiato in Asia negli anni ’70 e ’80, hanno iniziato a scrivere su Twitter che The Serpent li ha messi di fronte alla realtà che in quella situazione si sarebbero fatti ingannare molto facilmente da quell’uomo dalle parvenze generose. Alcuni sono rimasti sconvolti nel rendersi conto, solo adesso, del rischio ipotetico che hanno corso e di quanto in realtà fossero vulnerabili, mentre altri hanno riconosciuto nella storia delle similitudini con loschi personaggi incontrati sul loro cammino.
Il grande e terrificante stratega Sobhraj, la cui abilità nel falsificare un passaporto e nello scappare dalle prigioni lo avrebbe reso, in un’altra vita, una spia eccellente, ha invece sviluppato una forma di disprezzo per gli ingenui. Nella serie, come nella vita reale, usa il razzismo nei suoi confronti come neocolonialismo per giustificare i suoi crimini, una sorta di vendetta verso il privilegio bianco. In effetti, ribalta questo privilegio a loro sfavore, lui è l’unico che capisce veramente la Thailandia e quindi sa esattamente chi può essere ingannato, sedotto, corrotto o intimidito. I viaggiatori, nel frattempo, si chiudono in una bolla, interagiscono a malapena con la gente del posto, al di là di camerieri e guide turistiche, rendendosi a loro volta dei bersagli facili. Alcuni testimoni vedono una delle vittime inciampare e vomitare a causa delle droghe di Sobhraj, ma viene etichettata subito come la solita occidentale ubriaca. Nel frattempo né la polizia né gli ambasciatori considerano una priorità rintracciare gli hippy scomparsi perché, secondo loro, potrebbero aver deciso spontaneamente di prendere strade diverse da quelle prefissate, li considerano solo degli sbandati.
Il compito di venire a capo di questa faccenda è lasciato a una piccola squadra di detective improvvisati guidati soprattutto dalla morale: un giovane diplomatico olandese e sua moglie, il risoluto diplomatico belga Paul Siemons e i vicini francesi di Sobhraj in preda ai sensi di colpa, sarà compito loro scardinare il sistema e mettere insieme i pezzi della storia. La loro minuziosa indagine ha un fascino simile a quella di Zodiac di David Fincher e rispecchia l’attento percorso di Sobhraj. Poiché non si capirà mai perché ha fatto quello che ha fatto, almeno non è esplicito, The Serpent si concentra sul come lo ha fatto. Un modus operandi che al giorno d’oggi sarebbe davvero impensabile nell’era delle telecamere a circuito chiuso e dei passaporti elettronici, oggi i backpackers lasciano tracce costanti sui loro social, invece di chiamare a casa con scarsa voglia ogni qualche settimana. Internet ha eroso parte della distanza e del mistero del viaggio, ma ha anche reso molto più difficile scomparire completamente.
L’arte dietro The Serpent, dal casting alla musica alle scenografie terribilmente ricche di suspense, è superba, ciò che lo rende insolito tra le serie sui serial-killer è che si preoccupa profondamente delle vittime e delle loro famiglie, così come dei detective e degli assassini. Come per il diplomatico Herman Knippenberg ossessionato dalla storia e dal desiderio di giustizia tanto da rischiare di vanificare tutta la sua carriera, gli sceneggiatori Richard Warlow e Toby Finlay hanno ritenuto doveroso essere certi che le vittime venissero ricordate e onorate. Verso la fine, come i gangster in Goodfellas, Sobhraj diventa sciatto e trasandato, ha perso completamente il suo fascino mandando completamente in frantumi il suo incantesimo dell’orrore; le sue potenziali prede possono finalmente vederlo per quello che è. Quando si leggono alla fine le dediche alle persone coinvolte nella vicenda si capisce chiaramente che quest’uomo insulso può essere anche la star dello spettacolo, ma non ne è il cuore.
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