The Last Dance, la docuserie su Michael Jordan e i Chicago Bulls
La docuserie The Last Dance racconta in 10 episodi un periodo storico davvero formidabile per tutti gli appassionati di basket, la storia di Michael Jordan e della sua squadra, i Chicago Bulls che vinsero sei campionati NBA negli anni ’90. Io non ho mai seguito il basket in tutta la mia vita, eppure questa serie prende, prende eccome, perché lo sport è il fil rouge per andare più in profondità rispetto a cosa volesse dire partire dal nulla per arrivare al successo, diventare un idolo internazionale, scontrarsi con le dinamiche di quello che per gli altri è solo un gioco. Ovviamente tutto gira attorno a Michael Jordan, diventi automaticamente protagonista, ma poco importa che sia così tanto autoreferenziale, il prodotto è valido.
In The Last Dance, disponibile su Netflix, viene spiegato perché Jordan fosse una figura così temuta e dominante, si capisce come nasce una squadra di successo e soprattutto che per quanto Jordan fosse il re indiscusso del basket non avrebbe mai vinto così tanto se al suo fianco non avesse avuto un team forte e compatto. Non viene trascurato un altro aspetto fondamentale, ovvero il business che ruota attorno all’NBA, i capricci, l’egocentrismo, il controllo, il potere nelle mani dei proprietari e dei general manager.
La struttura di The Last Dance è un po’ complicata, segue simultaneamente due linee temporali che alla fine vanno a unirsi, la prima è l’intero periodo dell’ascesa e del dominio dei Bulls, dal draft di Jordan nel 1984 fino alle sei stagioni di campionato: una tripletta nel 1991, 1992 e 1993; un’altra nel 1996, 1997 e 1998. La seconda linea temporale è un esame molto più approfondito di quell’ultima stagione vincente, correva l’anno 1997-98 in cui, nonostante i cinque campionati vinti alle spalle, il futuro di Jordan, dell’allenatore Phil Jackson e del sottopagato secondo uomo Scottie Pippen erano incerti. Il documentario spiega che nel 1997-98 i Bulls e Jordan permisero ad una troupe cinematografica di seguirli in ogni momento (o quasi), per questo motivo il repertorio di immagini è davvero abbondante, fondamentale per rendere la docuserie davvero interessante.
Il regista, Jason Hehir, fa un uso saggio dei diversi punti di vista e di una linea temporale scorrevole per riportare lo spettatore a essere sempre focalizzato sul punto della storia di cui si parla, si rivela efficace raccontare quell’ultima stagione per scivolare indietro nel tempo, più e più volte, per poi ritornare alla storia fino a quel fatidico punto. Al centro del documentario, al centro dei Bulls e, in qualche modo, al centro del mondo, specialmente nel 1993 c’era Michael Jordan.
Jordan è sempre stato in qualche modo sia onnipresente che un po’ sfuggente, quelle che rilascia nella serie sono in assoluto le interviste più coinvolgenti e apparentemente schiette che abbia mai fatto, ha dato ai registi un ampio spazio per parlare di tutto, dalle tensioni con Isiah Thomas, fino ad arrivare al delicatissimo discorso alla morte del padre.
Il cattivo sangue che scorre tra i Bulls e i Detroit Pistons, dei primi anni ’90, soprattutto con Thomas, è una delle storie più interessanti che nascono dai primi anni di dominio dei Bulls, in alcuni episodi in cui si parla di vecchie rivalità sportive vengono intervistati gli ex atleti, in alcuni casi seppelliscono l’ascia di guerra, in altri trovano un risvolto umoristico, anche se non mancano le frecciatine, Jordan non sembra aver perso un briciolo di fastidio quando si tratta di Thomas e i registi gli mostrano alcune prove presentate ad arte per far sì che il rancore non cessi tra i due.
Il modo in cui vengono fatte le interviste sono particolarmente efficaci per coinvolgere il pubblico, spesso fanno vedere al soggetto dell’intervista il filmato di ciò che qualcun altro ha detto di lui, ottenendo così delle reazioni spontanee spesso ironiche, a volte non troppo, come nel caso di Jordan quando gli si fa vedere un vecchio filmato di un giocatore che forse ha avuto la meglio su di lui una volta, solo per un momento. Nonostante la prova provata lui nega e assicura che non è mai successo. Mai.
Uno dei passaggi più avvincenti di The Last Dance è la linea sottile tra l’impareggiabile spinta competitiva di Jordan, a cui tutti attribuiscono gran parte del suo successo e la sua estrema sensibilità alle offese, possiamo dire che sia un po’ permaloso. Anche all’apice del suo successo non può sopportare che qualcuno venga anche solo casualmente paragonato a lui, in nessun modo, per evitare che la sua unicità venga ferita. In più occasioni spiega che il desiderio di vincere una particolare partita nasceva dal bisogno di vendicarsi dopo una frase fuori luogo o provocatoria detta su di lui o sui Bulls. Jordan attribuisce una delle sue migliori prestazioni al desiderio di vendicarsi di qualcuno che non lo aveva salutato in un ristorante. Tutto questo accadeva in un momento in cui era particolarmente sfinito dalle esigenze dell’essere così tanto popolare, di essere Michael Jordan.
Un uomo talmente potente, considerato il giocatore migliore del mondo, aveva davvero bisogno di portare sempre le questioni sul piano personale per trovare la motivazione per vincere? O era solo un eccezionale giocatore di basket con un pessimo carattere?
In realtà in The Last Dance non si vuole cambiare l’opinione che ognuno può avere su Jordan, ne in bene ne in male, quello che ne esce è sicuramente la sua bravura e il talento indiscutibile, la sua leggendaria etica sul lavoro, anche durante il periodo nella lega minore di baseball, la sua vicinanza alla famiglia e la sua versione di leadership, che in certi casi porta a pensare più ad atti di bullismo, ma che invece i compagni di squadra continuano a considerare il meglio che si potesse avere. Forse proprio perché per quanto dall’esterno ci può sembrare burbero, in effetti alla fine la narrazione ci racconta che non importa quanto gentile o cattivo fosse Jordan o quanto talento avesse, non avrebbe mai vinto sei campionati senza il resto della sua squadra. In quell’ultima stagione, quando Pippen, che ha tutto il nostro appoggio per essere stato brutalmente sottopagato dopo aver firmato uno sconsiderato contratto di sette anni per tutelare la sua famiglia, decide di operarsi al piede all’inizio della stagione, in parte perché deve farlo e in parte perché si sente tradito della direzione riluttante a rinegoziare il suo contratto, lasciando Jordan a cavarsela da solo, anche in questo caso non mancano le lamentele. Infatti, la stagione non inizia affatto bene.
L’obiettivo di Pippen era proprio questo, dimostrare che il talento smisurato di Jordan da solo non era abbastanza per vincere, che Jordan senza Pippen era solo metà, che c’era bisogno di lui più di quanto non lo volessero ammettere. Nonostante abbia ampiamente dimostrato di avere ragione, Jordan non ha usato il suo potere persuasivo per rinegoziare le richieste legittime di Pippen, come invece aveva fatto con Phil Jackson, annunciando che si sarebbe dimesso se l’allenatore fosse stato sostituito. Invece Jordan si infuria davanti a qualcuno che sta cercando di far riconoscere il suo valore. Un passaggio davvero strano, che lascia molte domande aperte nella mente di chi osserva.
Soprattutto perché tutte queste concatenazioni di eventi in The Last Dance fanno sorgere la domanda di quale sia la ricetta perfetta per mettere insieme una squadra così forte come sono stati i Chicago Bulls. Come fare a tenere insieme i giocatori abbastanza a lungo da creare quello che avevano costruito loro? Se uno Scottie Pippen non avesse firmato uno svantaggioso contratto di sette anni, un errore che i giocatori di oggi vogliono evitare, sarebbe rimasto sottopagato a supportare Michael Jordan come suo secondo? Non sapremo mai la vera ricetta segreta per ricreare una squadra come i Chicago Bulls, per questo The Last Dance è un piccolo gioiello per gli amanti del basket e per i novizi, inoltre ci sono un bel po’ di schiacciate fenomenali.