La regista della miniserie Netflix When They See Us, Ava DuVernay, fin dalle prime scene non perde tempo a raccontarci quanto fosse normale la vita dei giovani adolescenti Kevin Richardson (14 anni), Antron McCray (15anni), Yusef Salaam (15 anni), Korey Wise (16 anni) e Raymond Santana (14 anni), prima di quella fatidica notte del 19 aprile 1989 quando per gioco si sono uniti a una folla di altri ragazzi che correvano al parco da Harlem e sono diventati per sempre, attraverso una concatenazione di eventi da incubo, i cinque di Central Park. La scelta di non enfatizzare la normalità rispecchia esattamente quello che gli stessi ragazzi rappresentano, cinque giovani che hanno voglia di andare al parco a divertirsi in una quotidiana, abitudinaria, normalissima vita da ragazzi, un fatto che appare scontato. When They See Us è un resoconto romanzato, seppur molto fedele ai fatti centrali, di come i cinque giovani siano stati arrestati e condannati con l’accusa di aver stuprato e picchiato quasi a morte Trisha Meili, “la jogger di Central Park”, una giovane donna bianca il cui povero corpo martoriato fu trovato quella stessa notte.
Tutti gli indizi iniziali indicano che un solo aggressore l’ha trascinata fuori dal sentiero del parco nel bosco circostante, ma quando il capo dell’unità crimini sessuali del procuratore distrettuale, Linda Fairstein, interpretata da Felicity Huffman, viene a sapere che “una manciata di stronzi” sono stati arrestati in un altro punto nel parco proprio quella sera, comincia una nuova narrazione ai limiti del surreale. Una lista tutt’altro che casuale di possibili sospetti viene stilata dalla polizia che si sparge a ventaglio in tutta Harlem per trovarli, tra questi i nomi di quattro dei ragazzi che la sera prima erano alla festa nel parco. L’assurdità è che uno dei cinque, Korey Wise nemmeno compare sulla lista, ma per ingenuità e amicizia decide di accompagnare il suo amico Yusef, il cui nome invece compariva nella lista, alla stazione di polizia perché pensa che se non lo farà sua madre si arrabbierà. La scelta di un giovane ragazzo che vuole star vicino a un amico in una situazione assurda. La scelta più cara della sua vita.
Così quella notte da ingenui ragazzini, anche poco scaltri, vengono riqualificati come “animali” che si muovono in branco, pronti a incitare una rivolta violenta e decisi a distruggere, ma sono solo bambini o poco più.
Come per la scelta iniziale di rappresentare i ragazzi come assolutamente comuni, anche la Fairstein e la sua squadra non sono mai esplicitamente etichettati come razzisti, il loro pregiudizio è semplicemente insito in ogni supposizione, c’è come un tacito accordo tra tutti gli adulti bianchi in cui i ragazzi sono automaticamente i sospettati più ovvi, nasce la convinzione che “devono” averlo fatto loro, la Fairstein non ammette diverse possibilità, nemmeno davanti a esplicite evidenze.
Il disorientamento dei ragazzi durante le lunghe ore di interrogatorio non assistito, violento e non registrato, in cui vengono lasciati senza cibo, senza pause per andare in bagno, dove il volto di Kevin appare gonfio per il colpo ricevuto da un poliziotto nel parco, porta i ragazzi terrorizzati a false confessioni estorte con tecniche discutibili. L’unica è la madre di Yusef che riesce a raggiungerlo e ad allontanarlo prima che lui firmi qualsiasi cosa, ma ormai il danno è fatto.
Si passa così al processo in cui i ragazzi sono assolutamente confusi e disperati per la piega che ha preso la questione, non riescono a farsene una ragione (e noi con loro, viene spontaneo pensare che non possa essere veramente accaduto tutto quello che abbiamo visto fino a quel momento). Il processo è altrettanto incredibile, l’assenza di prove fisiche, di testimoni e le denunce di azioni coercitive da parte della polizia non sono sufficienti a smuovere il giudice e la giuria, che a prescindere hanno già preso una decisione sui cinque ragazzini di colore, anche in questo caso si respira quell’aria tossica che accompagna le certezze della Fairstein.
Addirittura la procuratrice americana Elizabeth Lederer, pm principale del caso preposta a confermare i fatti, a sua volta solleva dei dubbi sulla colpevolezza dei cinque quando anche la prova del DNA sulla scena del crimine non riesce a collocarli lì, a quel punto offre un patteggiamento, ma loro non vogliono ammettere di aver fatto qualcosa che non hanno fatto nonostante le precedenti confessioni estorte dettate dalle minacce e dalla paura. L’epilogo è un pugno nello stomaco, vengono tutti condannati a scontare dai sei ai tredici anni di prigione, mentre Korey, l’unico ad aver compiuto da poco 16 anni, viene processato e condannato come un adulto.
Emerge chiaramente l’ingiustizia Americana e la discriminazione razziale, per i cinque ragazzi innocenti non c’è possibilità di giustizia, i bianchi hanno deciso che loro sono i colpevoli senza preoccuparsi di verificare qualsiasi altra possibilità. Da quelle prigioni ne emergono quattro uomini adulti a cui è stata rubata la giovinezza e la libertà, la miniserie non fa sconti sul mostrare cosa voglia dire ricominciare una nuova vita quando ti porti sulle spalle la nomea di criminale e stupratore. Yusef vuole fare l’insegnante ma gli è proibito dalla sua fedina penale, Raymond non riesce a trovare un lavoro e alla fine cade nel giro dello spaccio di droga. Kevin e Antron tirano avanti, ma non riescono a fare molto di più.
L’episodio più straziante, se si può fare un’escalation di dolore, è proprio l’ultimo che investiga sulla vita di Korey, condannato quando aveva solo 16 anni, ha passato la sua intera vita in diverse prigioni per adulti, la maggior parte delle quali a centinaia di chilometri da casa sua, il suo vissuto in prigione è una tortura che spezza il cuore, immaginatevi un bambino buttato brutalmente in carcere con uomini adulti.
Si dice che prima o poi la verità trova il modo per venire a galla, dopo così tanti anni di ingiustizia accade che casualmente, nella prigione in cui Korey si trova, incontra il vero stupratore di quella maledetta notte e lo stesso, mosso da compassione, decide di confessare spontaneamente. Così nel 2002, dopo oltre 10 anni, arriva il proscioglimento dalle accuse per i cinque uomini che hanno vissuto la loro vita come dei criminali solo per un piccolo errore dettato dal pregiudizio.
When They See Us è una serie intensa e dal ritmo incalzante che esamina non solo gli effetti del razzismo sistemico, ma anche gli effetti legati alla privazione di tutti i diritti soprattutto su persone che hanno un background di vita che si ferma all’adolescenza. Mostra una società in cui la mancanza di denaro porta ad avere avvocati inadeguati e madri impossibilitate a far visita ai propri figli perché incarcerati in luoghi troppo lontani. La vita passata ad avere paura di un sistema corrotto e razzista che porta anche un genitore adulto a incoraggiare il figlio a firmare una falsa confessione nella vana speranza, più un’illusione, di poter lasciare incolumi la stazione di polizia stracolma di bianchi. L’impotenza di fronte a un’autorità che non ti assomiglia né tantomeno si preoccupa di te.
Le interpretazioni, sia dei giovani attori che dei veterani, sono stupefacenti, specialmente quelle dei dei cinque protagonisti, Asante Blackk, Caleel Harris, Ethan Herisse, Marquis Rodriguez e Jharrel Jerome, la maggior parte dei quali hanno solo pochi anni in più degli adolescenti che interpretano. Sono stati capaci di catturare l’innocenza, in tutti i sensi, dei bambini, e la drammatica perdita della stessa.
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