La natura delle relazioni attuali: di cosa abbiamo realmente bisogno?
Tre sono gli autori che leggono la realtà, al di là delle apparenze e delle illusioni che abitano le nostre convinzioni e la nostra quotidianità, proponendo punti di vista alternativi e lungimiranti: Harari, Bauman e Giddens. In forme diverse, questi autori descrivono gli effetti che la contemporaneità e la liquidità del mondo attuale esercitano sulle relazioni umane, sulla fiducia essenziale che ne è alla base. In realtà ciò che si cerca nell’altro è il riconoscimento vero e sincero della nostra umanità, quella sete di cura fondamentale per alimentare la vita. Se c’è riconoscimento reciproco, c’è cura e, se c’è cura, c’è vita; in una circolarità che abbraccia ogni età e ogni tempo.
In questo periodo sono alle prese con la lettura del libro “Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità” di Yuval Noah Harari, storico e professore presso la Hebrew University di Gerusalemme; si tratta di un bel mattone di cinquecento pagine, capace di descrivere il contesto attuale con una lucidità e una logica impressionanti. Le riflessioni che ne scaturiscono abbracciano il nostro tempo e la nostra condizione. Siamo immersi in una complessità dai ritmi frenetici, i cambiamenti, le sovrapposizioni ci spingono sempre verso qualcos’altro, quell’oltre, quel benessere veloce e rapido, alle brevi distanze che ci separano. Quando scrivo “immersi”, intendo il significato letterale del termine: ci siamo così dentro che è difficile immaginare che ci sia qualcosa di diverso, abbiamo imparato a respirare dentro la contemporaneità veloce, inclusiva, globale. Le nostre esistenze si sono adattate al “mare della complessità”. Harari propone un passaggio in più e ci costringe a tirar su la testa e a riprendere fiato: dalla comparsa dell’Homo sapiens fino alla caratterizzazione dell’uomo-dio, la storia diviene ciclica e priva di giustizia, l’uomo è inserito nei cosiddetti sistemi immaginari. L’uomo vive di e per questi sistemi, ma non ne ha la minima consapevolezza. Gli ideali, le aspirazioni, gli stili di vita, le credenze, le abitudini, il sistema economico, la società, il concetto stesso di cultura rientrano negli ordini immaginati, ossia sistemi nati e sorti per dare senso, ordine e direzione ai cambiamenti, per modellare le menti e i comportamenti a determinate linee di pensiero, a precisi mutamenti. Ma sono sempre frutto dell’immaginazione umana, non esistono in natura, sono miti inventati.
L’ordine immaginato fa parte del mondo materiale, modella i desideri delle persone ed è intersoggettivo; tutti ne siamo “vittime” per poter continuare a vivere nell’attualità. Viviamo di invenzioni per dare orientamento alle nostre azioni, in un mondo che è vasto e vario. Capisco di essere molto vaga e troppo generalizzante, purtroppo l’argomento è così vasto e ricco che si fa fatica a delinearne gli aspetti principali. Riporto perciò l’esempio di un professore universitario per spiegare meglio: prendiamo come esempio i sistemi di comunicazione; per spedire una lettera nel Cinquecento si utilizzavano i cavalli e chi era preposto all’incarico. Costoro impiegavano un tempo indefinito per portare a destinazione la suddetta busta, con il rischio di non arrivarci mai per via degli innumerevoli pericoli che potevano incontrare (furti, smarrimenti…).
A distanza di trecento anni le cose non cambiavano: nell’Ottocento erano presenti le stesse modalità, gli stessi rischi, gli stessi tempi; la lettera impiegava un tempo indefinito per poter essere aperta e letta (se la spedizione andava a buon fine). Se invece pensiamo ai moderni sistemi di trasmissione e di comunicazione, i tempi e le modalità sono completamente stravolti, cambiano le forme, i luoghi, le attese; i cambiamenti non sono più lenti ma giungono a distanze brevissime. Gli anni Ottanta e Novanta sono sorpassati se pensiamo alla tecnologia attuale; eppure, ci sono solo un paio di decenni a separare queste età. Nel passato moderno le innovazioni potevano anche attendere centinaia di anni, oggi non è più così. A volte basta veramente poco perché cambi tutto ad una velocità sorprendente. C’è contrazione di tempi e distanze, di desideri immediati e di servizi, i valori subiscono quasi un appiattimento. Direi che l’espressione da usare, in questo caso, sia “il tutto su tutti”, qui la preposizione è sottile: non una globalità “per tutti” ma una globalità che si dilunga sulle persone, si posa come un velo senza distinzioni, amalgama le differenze, portando una serie di conseguenze. Per quanto sembri paradossale e quasi offensivo, non ci rendiamo conto che i termini uguaglianza e libertà, al giorno d’oggi, siano incompatibili: se una persona fosse pienamente libera non sarebbe uguale agli altri; se tutti godessero del principio sacro dell’uguaglianza, nessuno sarebbe libero. Ecco perché entrambi sono frutto delle credenze e dei miti immaginari umani. A mio avviso, il termine “fiducia” rappresenta lo spartiacque, la chiave per interpretare i rapporti, le manifestazioni che viviamo oggi. Oltre ad Harari, due sociologi come Giddens e Bauman rappresentano coloro che più hanno descritto questo scenario, guardando dall’alto la nostra contemporaneità. Per certi versi, hanno dato una visione globale della nostra globalità. La fiducia cementa le relazioni, i rapporti, i servizi di cui disponiamo; Harari afferma che “il denaro è il sistema di mutua fiducia più universale e più efficiente che sia mai stato concepito”, fa da tramite a persone che possono anche non condividere la stessa lingua, la stessa nazionalità ma entrambi si fidano del valore condiviso e universale del denaro. Il denaro rappresenta fiducia perché in un mondo dove tutto cambia, di certo e fidato, forse, resta ben poco. Il denaro compra, dà, scambia altro denaro, assicura, giustifica una vita intera dietro un macchinario, un banco, un qualsiasi strumento di lavoro. Con esso agiamo nella complessità e ci fidiamo dei grandi sistemi attuali che funzionano grazie al denaro, senza di esso, non avrebbero senso gli odierni sistemi immaginari che ci circondano.
La fiducia di cui parlo però è una fiducia, per così dire, estesa: per poter vivere nell’attualità, devo fidarmi dei suoi meccanismi, far parte di essi e agire al suo interno. Devo fidarmi del sapere, delle dinamiche che concorrono a farmi, per esempio, ordinare un vestito su Amazon, prenotare una vacanza online, assicurare la mia macchina, aprire e gestire un conto corrente, immettere i miei dati in qualsiasi tipo di account. Mi fido a prendere un aereo perché confido nel sapere e nelle competenze di chi lo guida. Mi fido a farmi curare dal mio medico, mi fido ad uscire di casa con la macchina perché so che anche gli altri hanno le conoscenze e la pratica per poterlo fare. Può sembrare banale o scontato, ma gran parte della nostra esistenza è fondata su atti di fiducia perché la nostra società si è dilatata, le possibilità si sono ingigantite, le conoscenze sono molto specifiche e suddivise. Tanti campi di conoscenza, tanti settori al quale ci si deve fidare per far funzionare l’ingranaggio. Se è vero che la complessità si basa su questo macrosistema a livello generale, ad un piano più “basso” e vicino ritroviamo il rovescio della medaglia. Nei rapporti con le persone la fiducia si sfalda, si indebolisce, lascia il posto all’insicurezza e all’indeterminatezza.
Se il mondo corre a velocità esponenziali, gli esseri umani pagano il prezzo di vivere in un clima di incertezza generale: sul lavoro, sugli impegni, sui progetti, sull’affettività. Bauman parla di relazioni liquide, di società liquida: è l’immagine giusta per descrivere ciò che stiamo vivendo; una società che cambia continuamente, che offre tanto, che non conosce dimensioni di spazio e di tempo ma che si rivela volubile, fragile, quasi priva di appigli solidi, certi. Nelle relazioni umane questo è evidente: siamo circondati da persone che, per un determinato periodo di tempo, ci sono e poi no, per tutta una serie di motivi; non siamo sicuri che chi ci circonda adesso, resterà oppure no. La sostituzione è diventata una modalità di relazione, creando però un paradosso: siamo più soli e sofferenti nonostante la vasta gamma di possibilità che abbiamo. Siamo carenti di fiducia umana, nel senso più intimo e stretto possibile. Siamo liberi dalle frontiere, circondati dal benessere eppure, ci sentiamo spesso imbrigliati, incompresi, concentrati su di noi e sulla nostra autodeterminazione, da farci dimenticare una domanda importante “chi è, per me, l’altro?”.
Scatta allora l’indifferenza, l’insicurezza perché non sappiamo effettivamente chi siamo noi, per primi, per gli altri; le scelte diventano reversibili e tutto diventa un tentativo. La cultura di massa e la globalità influenzano il nostro modo di vedere e di vivere con gli altri; abbiamo tanto da dimenticare cosa stiamo cercando. Parte di quanto ho descritto lo vedo soprattutto nei genitori dei bambini della scuola dell’infanzia: non voglio generalizzare, ma percepisco un controllo sulle emozioni dei propri figli molto forte e pervasivo. Tutto deve essere registrato, postato, filmato, per far vedere che il bambino ha reagito in quella maniera; c’è una iper-protezione che vorrebbe tutelare e avvicinare il proprio figlio, ma è specchio di una costante insicurezza personale, di uno sforzo (a volte egoistico) di tenere il bambino sotto custodia, è presente quasi la paura di perdere la sua affettività. Se un genitore è concentrato sul controllo emotivo del figlio significa che non ha abbastanza sicurezza e fiducia in sé, nelle persone e nei contesti di vita vissuti. La madre di una bambina puntualmente ogni giorno mi chiede se la figlia ha mangiato oppure no, ricordando a quest’ultima di mangiare sempre tutto e di non rifiutare niente. Non che ci sia qualcosa di male, però mi piacerebbe chiederle se, per una volta soltanto, vorrebbe sapere quali tipo di attività, quali esperienze sua figlia ha vissuto e sperimentato con me e la sua classe. Il pranzo è importante ma a volte, anche involontariamente, c’è il rischio di mettere da parte la parola, l’accorgimento, quella piccola attenzione che farebbero la differenza. Altri esempi di questa dilatazione “filiale” possono essere i gruppi dei genitori su WhatsApp, utili in funzione dell’uso che se ne fa, superata la soglia diventano puro mercato.
Controllo, esibizione, ostentazione, mancanza della famosa privacy, superficialità, individualismo, solitudine sono gli elementi che caratterizzano il nostro rapporto con il mondo generale; un mondo che cambia costantemente, che non accenna a fermarsi, che ci vuole in mostra come manichini in una vetrina ma che, quando si tratta di andare in profondità, ci esclude. Quando usiamo un social, forse, è bene ricordarlo: le foto, i video sono fatte di pixel, dietro c’è tutt’altro. Sono un po’ come la realtà: a livello rappresentativo si manifestano in un modo, dietro le quinte c’è ben altro, ci sono persone, ci sono vite ed esperienze, c’è l’umanità. La fiducia ci consegna agli ordini immaginativi ed è impossibile non farne parte, ciò che però può aiutare è avere consapevolezza del quadro generale. Non siamo vittime della liquidità del mondo, ci siamo dentro e, con una visione diversa, è possibile tornare a guardare le cose con una prospettiva alternativa. L’essere umano è portatore di un’istanza di riconoscimento, chiede di essere visto per quello che è, di essere accolto così com’è: un essere mancante, necessitante di cure e di essere, a sua volta, curato, non nel senso medico, sanitario ma in chiave relazionale, umana. Ci dimentichiamo di essere animali nati con le medesime caratteristiche; animali sociali, fatti per la relazione.
La cura diventa una delle modalità con cui poter affrontare la complessità; significa tornare all’essenziale presente in ogni persona, nessuno escluso. Harari potrebbe obiettare dicendo che anche il concetto di cura fa parte dei miti, frutto della mente umana, ma non importa, potrebbe essere un antidoto all’incertezza, alla mancata fiducia generale nell’altro; saper vedere il valore unitario, intrinseco di ognuno, la sete di riconoscimento (l’esserci, il poter valere e contare per qualcuno), il desiderio di considerazione per ciò che veramente si è, sono i movimenti più difficili e faticosi da mettere in atto. Sarebbero importanti e necessari, vitali per venire incontro e colmare parte dell’insicurezza presente e questo può avvenire a qualunque età, condizione, lingua e paese; la cura che può imitare i processi di fiducia innescati dal denaro. Può sembrare un’utopia, un ideale campato per aria, un mito moderno…resta però un fatto: averne anche solo una piccola consapevolezza può aiutare, può fare la differenza. Gli autori e questo libro, in particolare, “Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità”, possono insegnare tanto.
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