La nuova serie Netflix di Maggie Friedman, “L’estate in cui imparammo a volare”, è perfetto per la categoria “drammi romantici sull’amicizia”, basata sul romanzo di Kristin Hannah la serie, spudoratamente sentimentale, segue le vicende di due migliori amiche dal momento in cui si incontrano nel 1974, attraverso il loro periodo di lavoro in una redazione locale negli anni ’80 e, infine, attraverso il quotidiano delle loro vite da quarantenni nel 2003 tra lavoro e relazioni. Tully, interpretata da Katherine Heigl, è una carismatica forza della natura che trasforma il dolore del suo passato in oro, mentre Kate, interpretata da Sarah Chalke, è quasi la sua ombra, gentile e costante, da sempre in lotta per cercare di lasciare il segno.
Se la trama vi ricorda il film di successo del 1988 “Spiagge“, non vi sbagliate, Hannah infatti è ben consapevole delle somiglianze, proprio nelle recensioni sul suo sito paragona esplicitamente “L’estate in cui imparammo a volare”, titolo originale “Firefly Lane” a “Spiagge”. Eppure, nonostante i suoi molti parallelismi con i film strappalacrime del passato, “L’estate in cui imparammo a volare” perde gran parte della sua potenziale risonanza emotiva smarrendosi nei suoi stessi trucchi narrativi.
Ogni episodio si intreccia in tre linee temporali, un’alternanza che solo occasionalmente ha senso dal punto di vista tematico, nelle conversazioni tra Tully e Kate da adolescenti, interpretate da Ali Skovbye e Roan Curtis, a quelle da ragazze in carriera degli anni ’80, fino a quelle da donne sole nel pieno dei quaranta, molto spesso gli intrecci sono abbastanza stridenti e senza un filo conduttore, costringendo lo spettatore a un continuo avanti e indietro tra gli episodi per essere sicuro di non aver perso qualche elemento di connessione. Un minuto prima Tully sta parlando a Kate delle sue prime mestruazioni, un minuto dopo lo show passa al 2003 per raccontare di Johnny il marito di Kate, interpretato da Ben Lawson, mentre si prepara a un pericoloso incarico come reporter in Iraq, ci siamo persi qualcosa in mezzo? Dov’è il punto di congiunzione? L’idea che passa è quasi che i periodi temporali siamo stati scritti da persone completamente differenti che tra di loro non si sono parlate, per poi essere assemblate dai montatori a posteriori senza delle precise linee guida.
Nel 2003 Tully diventa la conduttrice multimilionaria di “The Girlfriend Hour”, un talk show diurno che ricorda quello di “Oprah” o “The Ellen Show”, entrambi i quali sono citati di sfuggita con una parvenza di consapevole ammiccamento. Kate, nel frattempo, sta superando un divorzio e per distrarsi diventa l’assistente di una stralunata redattrice, Kimber, interpretata da Jenna Rosenow, in un settimanale di Seattle, il suo primo lavoro da quando ha avuto sua figlia 14 anni prima. L’arco temporale che racconta il 2003 risulta molto più credibile rispetto a quello ambientato negli agli anni ’80 in cui interpretano delle ventunenni, la scena ha sempre una luce soffusa che sembra far parte di un altro show, gli abiti, gli elementi d’arredo e il design scelti dalla produzione sono incredibilmente esagerati, tutto quello che viene raccontato nella redazione in cui lavorano sembra essere una parodia del film ” Una donna in carriera”, solo che nessuno sta ridendo.
Entrando più direttamente nei personaggi si può dire che Sarah Chalke, avendo monopolizzato per anni il mercato dei disadattati attraenti nelle serie Tv come ” Pappa e ciccia” e “Scrubs”, è più che all’altezza nel compito di incarnare Kate, una donna in crisi di mezza età in cerca di se stessa, anche se la sua goffaggine forzata va oltre la credibilità e mette a dura prova la nostra pazienza. Altrettanto sembra molto facile capire come la Heigl, che è anche produttrice esecutiva della serie Tv, si è cucita addosso il ruolo di Tully, una donne appariscenti e sexy che chiedono di essere prese sul serio, ha costruito una vita e una carriera dalle macerie di quello che le aveva lasciato sua madre, una hippie strafatta, Cloud, interpretata da Beau Garrett. Un ruolo che si adatta perfettamente al repertorio già visto della Heigl. Alcuni dei momenti più disarmanti e perversamente affascinanti della serie li troviamo proprio nello scontro tra la sensibilità esageratamente sdolcinata della serie in contrapposizione con la parte acida della Heigl.
Mettiamola così, è molto più interessante il personaggio di Kate piuttosto che quello di Tully e i momenti in cui questo si capovolge rende tutto troppo forzato, come ad esempio quando Tully dice a Kate “sei la mia anima gemella, stronza” a Kate risponde “sei tu la stronza, stronza”, un tentativo carino di dare a questa soap tutta al femminile un po’ di mordente ma che, alla fine, non funziona un granché. Questo attrito, accompagnato dalle linee temporali in qualche modo prevedibili e sempre più contorte, finisce per rendere “L’estate in cui imparammo a volare” una serie effettivamente strana senza rendersi mai abbastanza conto di quanto sia effettivamente strana. Ma proprio questo essere così sopra le righe porta lo spettatore a voler vedere tutta la prima stagione per pura curiosità e capire dove vuole andare a parare, la nota positiva è che viene la pazienza viene ricompensata, a suo modo, da un finale assolutamente bizzarro, capace di sollevare molte più domande di quante ne dia come risposte.
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