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Elegia Americana, di Ron Howard. Una storia commovente ma necessaria?

Ha debuttato il 24 novembre su Netflix Elegia Americana, l’ultimo film di Ron Howard, con protagoniste Glenn Close e Amy Adams. Basato sull’omonimo successo editoriale dell’autobiografia di J. D. Vance. Il film era tra i più attesi sulla piattaforma di streaming.

J.D. Vance (Gabriel Basso) è un ex marine che studia legge a Yale, sta per ottenere il lavoro dei suoi sogni, l’occasione giusta per dare definitivamente una svolta positiva alla sua vita, ma, all’improvviso, una crisi familiare lo costringe a tornare a casa. È così che si ritrova nel suo paese d’origine in Ohio, ai piedi degli Appalachi, la regione montuosa che si estende dal Canada all’Alabama, a fare i conti con il proprio passato e, soprattutto, con la madre Bev, un’infermiera tossicodipendente, che ha sempre lasciato J.D. a cavarsela da solo. La vediamo da giovane cambiare spesso compagno, costringere i figli a seguirla da una casa all’altra, sempre alle prese con lo sconforto, gli attacchi d’ira, le crisi depressive. L’infanzia di J.D. passa tra patrigni nullafacenti, vicini di casa alcolizzati, che sopravvivono grazie ai sussidi statali, periferie desolate, ma J.D. non è del tutto solo, per sua fortuna ha un angelo custode nonna Mamaw, in apparenza un’arpia, poco rassicurante, dai modi piuttosto bruschi e sbrigativi, eppure si rivela una donna tosta, che ha la consapevolezza di essere l’unica a poter salvare il nipote, portandolo sulla retta via. Una figura salvifica per il piccolo J.D., che capisce, grazie alla nonna, di dover accettare la sua famiglia disfunzionale per poter intraprendere la sua strada, realizzare i suoi sogni. Una consapevolezza che acquisisce negli anni, non senza dolore, sempre diviso tra senso del dovere e opportunità, desiderio di redenzione e attrazione per l’abisso.

Quest’ultimo film di Ron Howard potrebbe essere definito dai maligni una classica “americanata”, ma si sa che gli americani raccontano le loro storie sempre in questo modo; ce l’hanno nel sangue e chi siamo noi europei per impedirglielo?
Mentre un europeo, in particolare italiano, è solito parlare dei problemi del piccolo uomo, gli americani hanno la tendenza a epicizzare tutte le storie che narrano. Pertanto la storia di J.D. e della sua famiglia non è la storia di formazione di un singolo personaggio e del contesto parentale e sociale in cui si muove ma è La Storia; qualcosa di universale ed epico appunto, al pari della vicenda di Ulisse e del suo ritorno in patria dopo la guerra.

Certamente è una storia edificante che parla al cuore dello spettatore e in questo periodo storico solo ai cuori si può parlare, di certo la morale della storia è qualcosa che ci tocca tutti da vicino: noi siamo quello che siamo anche grazie e malgrado la nostra famiglia e, per quanto sgangherata possa essere, ha fatto le nostre radici ed è grazie a quelle che esistiamo nel mondo.

Posto tutto ciò, il film è sicuramente molto valido dal punto di vista recitativo, Glenn Close nel ruolo della nonna è la cosa più bella e la sua grandezza in questo ruolo fa il film degno di essere visto. Amy Adams si conferma la grande artista che è e che abbiamo visto crescere negli anni dai tempi insospettabili di The Wedding Date. A parte questi elementi, mi viene di azzardare qualcosa che forse è impopolare al momento e cioè che la sceneggiatura è al quanto banale e la storia già vista.
Se pensiamo al repertorio di film che hanno affrontato drammi familiari ve ne sono molti che raccontano meglio e ad ampio respiro quanto abbiamo visto in questo prodotto. La regia di Ron Howard recupera atmosfere alla Stand by me, nostalgiche, con una fotografia colorata nei flashback e sui toni di grigio nel presente.

Mi viene da chiedere se fosse necessario ricavare un film da una biografia che senz’altro avrà un suo valore ma della cui versione cinematografica probabilmente se ne poteva fare a meno. Anche se, come detto, si riscontra un grande piacere nella visione di due artiste complete come la Close e la Adams.

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