Ambiente

Anatomia di un vegano, quali stereotipi e quali verità

Anatomia di un vegano: com’è fatto un* vegan*? Cosa indossa, come si riconosce, ma soprattutto, cosa pensa? In questo articolo cercheremo di illustrare cosa si celi dietro l’idea del veganismo e dei vegani, quali stereotipi e quali verità si nascondano dietro quella frase che ha il potere di cambiare tutto semplicemente venendo gettata nell’aria: “Sono vegan*”.

L’aspetto idealtipico del vegano suggerisce una fisionomia emaciata, lo sguardo strabuzzato quasi sempre indirizzato a chi consuma prodotti animali, la tendenza a umanizzare l’inumano sempre in tasca e denti da carnivoro che hanno rinnegato la loro natura prima. Allo stesso modo, si ritiene che i vegani esprimano sé stessi con uno stile molto simile al classico intramontabile del “punkabbestia”, ampi vestiti consunti, canottiere slabbrate e calzature larghe di tessuto organico o derivato dalla plastica. I più scettici, spesso immaginano i vegani indossare abbigliamento realizzato in pelle, quindi non vegano, contravvenendo alle norme del veganismo stesso.

Nell’immaginario popolare il vegano soffre di pensieri ossessivi, orientati in particolare modo ai carnisti, termine coniato dalla sociopsicologa Melanie Joy, con cui si indicano tutte quelle persone attivamente convinte della superiorità della specie umana e del carattere di necessario del consumar carne. Secondo quanto diffuso in rete, da quelle affidabilissime fonti quali sono i meme anti-vegano di cui si vuol dare un esempio nel reperto fotografico successivo, il/la vegan* medi* prende parte a piani cospirativi, atti a privare i lavoratori del loro guadagnato pasto serale a base di carne o, peggio, del loro più che legittimo weekend estivo in Emilia a base di piadine allo strutto e taglieri di salumi e formaggi di varia foggia e colore.

 

Rimane inoltre presente, come riscontrato dalle evidenze poste da taluni servizi sponsorizzate dalla rete nazionale, l’associazione tra vegani e amanti delle teorie cospiratorie. Enrico Lucci, in un reportage accurato mostra un solo caso come esempio da cui inevitabilmente il pubblico potrà trarre le sue non indirizzate conclusioni, mostra come i 78 milioni di vegani nel mondo, in questo caso rappresentati da una famiglia siciliana, abbiano tendenze no-vax, credano alle scie chimiche, non credano nell’istruzione di cui ovviamente non hanno fruito, siano convinti di avere figli dotati di strabilianti poteri inscritti nelle stelle e mangino decisamente male.

Questa è l’immagine, più o meno statica, che si affaccia alla mente di chi sente un amico pronunciare la fatidica dichiarazione. Parole forti che spesso sono seguite dall’ultimatum disperato, che ricorda molto quello lanciato dall’impero austro-ungarico alla Serbia quando l’Europa era una polveriera e Gavrilo Princip aveva appena ucciso l’erede imperiale, che si può collocare su uno spettro ai cui antipodi troviamo un pacato “in che senso?” fino al più determinato e blitzkrieghiano “basta che non mi rompi i ******”. Accolto così il coming out, principiano le cene tra amici e i primi piani in famiglia in cui la domanda più frequente posta allo strano essere riguarderà il suo tasso di B12 o la squisita difesa del “vivi e lascia vivere” sui cui spesso il vegano si acciglierà, cogliendo qualcosa che ai carnisti pare illogico, ma che nelle sue sinapsi affette da ovvie carenze alimentari assume un altro significato.

L’idea dei vegani è, come sempre quando si tratta di persone, uno stereotipo, ovvero un insieme di idee cristallizzate basate su luoghi comuni con cui si tende a semplificare l’immagine di un gruppo di persone aventi una caratteristica su cui innestare il resto. I vegani, 78 milioni di persone, sono, come sempre accade, persone diverse tra loro, anche di molto. Il veganismo, per cominciare, è uno stile di vita basato su prodotti di origine non animale, trattandosi di uno stile di vita, esso assume le forme di un codice morale in cui il rifiuto per il consumo di prodotti di origine animale permea ogni sfera della vita dei vegani a partire dall’alimentazione. Il veganismo, spesso si accompagna a idee antispeciste, che si oppongono all’attribuzione di un diverso status ai viventi in base alla loro specie di appartenenza. Si può affermare dunque, e questa volta seguendo un filo logico, che il vegano non discrimini i viventi e riconosca loro una dignità intrinseca, oggetto proprio al giorno d’oggi di importanti dibattiti di natura giuridica che vorrebbero riservare agli animali, in quanto categoria elementale dell’ecosistema della terra, alcuni diritti di tutela che ne proteggano l’esistenza.

L’idea antropocentrica per cui l’uomo è il centro essenziale dell’universo è un retaggio ascrivibile alle tre grandi religioni del libro, le quali hanno confezionato una percezione della Terra come risorsa a disposizione esclusiva dell’uomo in quanto creatura prediletta. Altre religioni, invece, come Buddhismo, Induismo e Shintoismo, rappresentano l’uomo come parte di un sistema complesso di cui è spettatore privilegiato, ma non padrone. Esistono derivazioni legate a queste due religioni in particolare che prevedono stili di vita vegetariani o vegani, tramandati da tempi antichi nella casta Braminica indiana, la casta all’apice della piramide sociale, e nella tradizione buddhista/shintoista dello shojin ryori che prevede, per l’appunto, uno stile di vita sostenuto senza prodotti di origine animale. Il veganismo antispecista è spesso accompagnato anche da scelte derivate dall’impellenza di promuovere la tutela ambientale, le stime Fai, infatti, dimostrano come l’industria della carne sia responsabile per circa il 14% delle emissioni annuali prodotte dall’attività umana, il consumo individuale medio di carne è di circa 50,99 gr al giorno, convertibile in circa 2.056 kg, 2 tonnellate, di CO2 prodotta ogni anno, questo esito, moltiplicato per tutti i consumatori di carne, raggiunge cifre allarmanti. L’altro grosso problema ambientale legato all’allevamento intensivo, che copre la maggior parte dei consumi, è il bisogno fisico di spazio per ospitare sia gli animali sia le colture necessarie sfamarli, ogni anno vengono abbattuti in media circa 26.700 km2 di foresta per ospitare questi campi in cui ogni anno vengono abbattuti tra il 60 e il 70 miliardi di capi di bestiame per una domanda che, incredibile a pensarsi, si stima aumenterà drasticamente fino quasi a raddoppiare nel 2050. L’industria della carne, strettamente legata a quella dei prodotti caseari e della produzione di uova, è un business enorme, il solo ricavo annuo generato dalla produzione di carne bovina ammonta a circa 6,5 miliardi di dollari.

Per anni, nel dopoguerra, le proprietà salutari di carne e latte sono state oggetto di una pubblicità, molto poco distinguibile da una propaganda, serrata. La verità medica, presentata anche da esponenti nostrani dell’alimentazione salutare come Umberto Veronesi, è che in realtà vi è una forte correlazione tra l’insorgenza di alcune malattie e il consumo di prodotti animali, in particolare risulta dalla ricerca come questi prodotti aumentino drammaticamente l’incidenza di problemi legati al sistema cardiovascolare, di neoplasie, del diabete e dell’obesità.

Tornando alle motivazioni di natura antispecista, ci sono delle valide ragioni se gli allevamenti sono dislocati in luoghi poco accessibili, lontani per intenderci dai centri abitati, negli allevamenti le condizioni in cui vertono gli animali sono spesso grottesche, insalubri e unite ad un regime di violenza strabiliante. L’abbattimento degli animali è un evento struggente, crudo, cui anche il più convinto mangiatore di carne fatica a prendere visione, tant’è che il dibattito sulla macellazione halal e quella kasher, che prevedono l’abbattimento rituale dell’animale mediante sgozzamento, viene aspramente contestato come pure il diritto di praticarla. La macellazione dei maiali, che rendono una carne proibita dall’alimentazione halal e kasher, viene effettuata sempre previo sgozzamento, ma data la privacy garantita dagli stabilimenti di produzione, 78 milioni circa, in pochi manifestano contro il diritto di acquistare una busta di prosciutto di Parma. La quantità di carne disponibile nei supermercati, la varietà dei tagli e delle provenienze, non dà adito solo ad un enorme spreco alimentare data l’alta deperibilità dei prodotti, ma genera un inevitabile distacco per cui il prodotto acquistato non ricorda e non deve ricordare la sua origine.

Tornando allo stile di vita vegano, esso si oppone anche agli allevamenti di tipo estensivo che prevedono un certo grado di libertà, esempio mucche al pascolo, non perché i vegani abbiamo problemi esistenziali con le mucche che scorrazzano per le Dolomiti, ma perché anche questo genere di allevamento è soggetto a forme di crudeltà, gli esemplari sono selezionati in base al sesso e al tipo di razza, a seconda dunque della loro destinazione alimentare, per cui i giovani esemplari maschi, dopo 10 mesi dalla nascita vengono allontanati e destinati al macello, il fine ultimo della loro vita, la ragione stessa per cui sono coattamente ingravidati gli esemplari femmina, rimane invariato: diventare cibo. Riconoscere quindi agli animali lo status di un prodotto è esattamente ciò a cui si oppongono i vegani, sia per ragioni di tipo etico sia per ragioni derivate dall’impatto ambientale drammatico che quest’industria ha sul pianeta e le sue risorse, sempre più compromesse. Dunque, l’idea su cui si basa la filosofia vegana non è esattamente campata in aria.

Torniamo per un istante all’anatomia del nostr* vegan*. Sebbene sia largamente diffusa e accettata l’idea che i vegani siano tutti simili in qualche modo, è bene prendere atto dell’empiricamente accertato fatto che i vegani possono manifestarsi in diverse fogge e colori, chi con un nodo di rasta in testa, chi con una folta chioma bionda e chi con qualche capello in meno di quanto si pensi.

@alwaysithaka

Insomma, i vegani non sono tutti uguali. Allo stesso modo i vegani possono presentare stili e motivazioni diverse, possono svolgere diverse mansioni e l’essere vegani non va di pari passo con idee strampalate e prive di fondamento scientifico, al contrario, come si è dimostrato sopra, dietro alla scelta vegana ci sono molte ragioni basate su empirismo e attualità scientificamente comprovate. Chi scrive, per dare un volto diverso al vegan* dipinto dalla narrazione mediatica, è uno scienziato politico, diventato vegano a seguito di innumerevoli viaggi nei paesi in via di sviluppo e nei paesi meno sviluppati e durante il conseguimento di una laurea magistrale, si vaccina e crede nell’importanza dei vaccini e mai un giorno ha pensato che scie chimiche o teorie del complotto simil Q-anon meritassero credito. Ecco, forse ciò che manca è proprio questo, l’immagine reale dei vegani che, come tutte le persone, presentano unicità e differenze, non siamo una categoria omogenea di matti scriteriati, ma un gruppo eterogeneo di individui con motivazioni, capacità, privilegi e ordini di pensiero diversi. Siamo accomunati dal definirci vegani, ma ciò non vuol dire che l’dea di vegano venduta dai servizi click bait sia la realtà.

Essere vegani oggi, spesso, è sintomo di informazione e di una scelta capace di avere effetti positivi per tutta la collettività e tutto il pianeta, di cui gli animali sono una parte essenziale.

 

Per concludere, chi scrive darà breve illustrazioni del perché abbia scelto di essere vegana, ragioni in realtà molto semplici: la violenza e l’abbattimento sistemico degli animali sono pratiche crudeli e inquinanti, riconoscere un diverso ordine di valore alla vita presente in una forma diversa da quella umana, o di un certo di tipo di umano, è un pregiudizio grave in termini etici, di pensiero e ambientali. Sono diventata vegana per tre motivi: perché amo gli animali, banale direte voi, perché amo il pianeta e perché amo mio nipote, anzi i miei nipoti. Se una mia scelta, in quanto adulta capace di leggere una statistica e la realtà climatica davanti ai miei occhi, permetterà ai miei nipoti di non vivere in un modo devastato da pandemie, le zoonosi aumentano a causa dell’impatto dell’agribusiness, della deforestazione e del contatto tra specie, da una desertificazione crescente, da eventi atmosferici violenti e brutali ed eviterà loro, in ultima analisi, una vita di privazioni, magari come migranti climatici, allora mi pento di non averla fatta prima. Essere vegani è un impegno a favore di tutti, ed è un impegno che non ha nulla a che fare con la rappresentazione ridicolizzata che si dà dei vegani perché, come sempre, per rappresentare esseri umani, non bastano facili etichette e stereotipi dal perimetro ridotto.

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