Al MAST Photography Grant on Industry and Work, il vincitore
L’esposizione dei lavori di “MAST Photography Grant on Industry and Work”, concorso fotografico su industria e lavoro dedicato ai talenti emergenti, presenta le opere dei cinque finalisti della sesta edizione: Chloe Dewe Mathews, Alinka Echeverría, Maxime Guyon, Aapo Huhta e Pablo López Luz. Questi giovani fotografi sono stati selezionati tra quarantasette candidati provenienti da tutto il mondo e hanno sviluppato un progetto originale e inedito per la Fondazione MAST. I cinque i progetti affrontano temi di grande attualità: i danni ambientali causati dall’agricoltura intensiva, il ruolo della donna tra presente e passato nel campo dell’industria cinematografica e dell’informatica, il fascino della tecnologia e del design del prodotto industriale, l’impatto dell’Intelligenza Artificiale sui modi di vita tradizionali e l’omologazione indotta dall’industria globale della moda. Il vincitore, annunciato oggi, è Alinka Echeverría (Città del Messico, 1981) con il progetto intitolato Apparent Femininity.
La nostra sete di integrità non si placa mai. Desiderio di un’infanzia immacolata, per esempio, di un matrimonio intatto, di una società sana, di un corpo integro, inalterato, di una natura inviolata e oggi anche di un pianeta incontaminato. Per quanto ci sforziamo, non riusciamo proprio a ricordare l’origine di questo impulso, che tuttavia sembra essere una costante della nostra vita. Una caratteristica genetica o forse filogenetica dell’esistenza, che la filosofia sociale mette spesso in relazione con la nostra nascita, con il trauma della separazione vissuto in quel momento e con le successive esperienze dolorose che noi, come individui e come società, cerchiamo gradualmente di “coprire”, nascondere sotto una forte nostalgia di interezza, di integrità, di completezza. “Noi non corriamo, verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita”, osservava acutamente Emile M. Cioran nel suo libro L’inconveniente di essere nati.
La storia dell’umanità ha visto dilatarsi, espandersi il trauma personale, il dolore individuale, attraverso vari stadi successivi, sino a sfociare in una grande ferita collettiva, generalizzata. Le intuizioni di Copernico e Galileo, grazie ai quali abbiamo capito che l’uomo non è al centro dell’universo, e poi la scoperta dell’inconscio ad opera della psicanalisi hanno spezzato la fiducia originaria nel potere dell’essere umano e nella forza e supremazia della sua soggettività. L’uomo, l’individuo, deve ormai riconoscere anche a se stesso di essere sia inconsciamente sia consapevolmente un prodotto di forze esterne, estranee e “oscure” (Arnd Pollmann). Come scriveva Georg Simmel agli albori del Novecento, le forze centrifughe della modernità – tra cui è lecito includere anche la separazione fra il luogo in cui si vive e quello in cui si produce, fra capitale e lavoro – coincidono a tal punto con la frammentazione, la frantumazione del soggetto, da trasformarsi in un’esperienza di disintegrazione dell’uomo specificamente moderna, un’esperienza che risveglia il bisogno umano di unità, di interezza, di integrità.
Sostanzialmente le cose non sono cambiate granché nemmeno in epoca postmoderna e nel mondo attuale. Mentre l’arte idealistica soddisfa la necessità di fantasia, la speranza di una nuova interezza, da trenta, quarant’anni l’arte realista contemporanea è impegnata a indicare, mettere in evidenza e, per certi versi, analizzare i motori che alimentano le trasformazioni e le fratture psicologiche e sociali che molti esseri umani sono costretti a subire, non da ultimo provando spesso un desiderio recondito di integrità e purezza, da questo punto di vista, la fotografia contemporanea non fa eccezione. I giovani artisti mettono il dito nelle piaghe del nostro agire sociale ed economico, e lo fanno spesso con sarcasmo, con una profonda, caustica acutezza, mettendo a nudo e consentendoci di vedere – perfino lì dove, con il nostro sguardo retrospettivo e romantico, immaginavamo che esistesse ancora l’unità – tutte le contraddizioni, le ingiustizie nascoste, i fatali paraocchi che ci portano a idealizzare il passato e il presente. Ogni due anni, la Fondazione MAST, attraverso il MAST Photography Grant on Industry and Work, offre a cinque giovani fotografi l’opportunità di confrontarsi con le problematiche legate al mondo dell’industria e della tecnica, con i sistemi del lavoro e del capitale, con le invenzioni, gli sviluppi e l’universo della produzione. E spesso il loro sguardo innovativo e inedito ci costringe a scontrarci con incongruenze, fratture, fenomeni e forse perfino abissi che finora avevamo trascurato o cercato di non vedere.
Apparent Femininity (Femminilità apparente), opera tripartita di Alinka Echeverría è un inno e insieme una denuncia. Prima di tutto l’artista celebra Grace, con un’animazione a LED creata a partire da una fotografia di Berenice Abbott. Grace Brewster Murray Hopper, che al termine della sua carriera militare aveva raggiunto il grado di ammiraglio di flottiglia della US Navy Reserve, è stata un’informatica americana, una pioniera del computer. Poi l’artista onora Hélène. In Francia Hélène – la cui radice greca ēlē significa fiaccola, splendore – era un nome molto comune all’epoca del cinema muto, quando alle giovani donne della classe operaia veniva affidato il montaggio delle pellicole. Echeverría le ricorda con un’installazione costituita da lastre di vetro stampate e collocate su basamenti. Le immagini rimandano all’abilità delle montatrici, a una competenza essenziale nella storia del cinema. Infine l’artista rende omaggio ad Ada, Ada Lovelace, o più precisamente Augusta Ada King-Noel, contessa di Lovelace, la matematica definita da molti la prima programmatrice della storia, e lo fa con un gigantesco mosaico, un collage fatto di più parti. Echeverría celebra queste tre figure di donne reali o immaginarie in rappresentanza del lavoro femminile nascosto (nel cinema, nella fotografia, nella tecnologia informatica) e ne scrive la storia. Questo omaggio va inteso tuttavia anche come una denuncia rivolta a una storiografia dominata dagli uomini, cui si lega l’interrogativo sul destino della donna nel futuro mondo del lavoro, nell’industria 4.0.
Pablo López Luz, nella serie Baja Moda (Bassa moda), che ritrae strade e vetrine in Messico, affronta le metamorfosi e le deformazioni nel settore del commercio che portano alla scomparsa dei cicli locali di produzione e vendita a vantaggio di processi e attori globali. López Luz segue con occhi attenti, perspicaci, i negozi di abbigliamento e le mode locali, fotografa gli ambienti di vendita come fossero piccoli teatri di posa, scenari che consentono di gettare uno sguardo su una cultura popolare che svanisce, scompare gradualmente. La vetrina del negozio si trasforma in una sorta d’interfaccia fra il passato e il futuro, fra l’alta moda e la moda “bassa”, l’abbigliamento locale, d’uso quotidiano, e le tendenze dei brand internazionali con cui ci identifichiamo, una moda visivamente appariscente, che invade in modo sempre più pervasivo le vie dello shopping e i centri commerciali di tutto il mondo.
Aapo Huhta lavora sull’attrito tra immagine e parola. Nelle sue installazioni video-sonore raccolte sotto il titolo Sorrow? Very Unlikely (Tristezza? Molto improbabile) la “fotografia”, medium per la registrazione delle immagini ormai vecchio di duecento anni, impatta sui nuovi sistemi analitici sviluppati da Google e Microsoft. Le fotografie che ritraggono il paesaggio rurale finlandese, con i suoi villaggi cresciuti in armonia con la natura, le tradizioni trasmesse da una generazione all’altra, le azioni semplici, banali, lontane anni luce dalle correnti e dalle tendenze globalizzate, vengono analizzate cinque volte da sistemi di riconoscimento delle immagini basati su algoritmi e, in correlazione con la probabilità che vi si verifichino determinati eventi, accompagnate dal commento apatico e distaccato di un sintetizzatore vocale. La molteplicità, l’ambivalenza, la contraddittorietà di ciò che è organico viene misurata da algoritmi di precisione binaria 0-1, con il risultato che due mondi si sfiorano senza tuttavia percepire niente di fondamentale l’uno dell’altro.
L’installazione video e fotografica di Chloe Dewe Mathews dal titolo For a Few Euros More (Per qualche euro in più) unisce in modo fluido, disteso ed elegante epoche e settori industriali essenzialmente diversi, caratterizzati da strutture sociali e monetarie differenti. L’ambientazione è il gigantesco Mar de Plástico, il “mare di plastica” che si estende a sudovest di Almería, nella Spagna meridionale, fra il litorale e la Sierra Nevada, un’enorme distesa agro- industriale di circa duecento chilometri quadrati, in cui si produce la metà della frutta e verdura che andrà a riempire gli scaffali dei supermercati di tutta Europa. È il più vasto “orto” coperto da teloni di plastica del mondo, serre che forniscono circa tre milioni di tonnellate di prodotti all’anno. Tra la popolazione andalusa locale e i lavoratori stranieri, soprattutto africani, si verificano forti tensioni e scontri continui. La regione era povera, prima che negli anni sessanta prendesse avvio lo sfruttamento sistematico del suolo. Alla stessa epoca, la grande miniera d’oro, argento e piombo in disuso che aveva occupato l’area nei cento anni precedenti veniva scelta da Sergio Leone come location per i suoi famosi spaghetti western; oggi il vecchio set cinematografico è una meta ambita da molti turisti. Maruf, il lavoratore migrante africano protagonista del video di Dewe Mathews, penetra come una sonda, sorvola come un drone mondi ed epoche profondamente diversi, quattro universi industriali – agricoltura, miniera, cinema e turismo – con il sottofondo di un ambient sound di grande effetto. La vita incorrotta è soprattutto un sogno, una nostalgia, un desiderio. Perché, nel presente di ogni essere umano, è un’utopia che si avvera di rado e con tratti solo vagamente analoghi a quella che spesso proiettiamo sul passato, accarezzando l’idea di un’esistenza mitica, di un popolo, di un’epoca leggendaria. Questa proiezione è sempre un gioco pericoloso, perché quasi mai controllabile e verificabile, in compenso però può essere enfatizzata e strumentalizzata in funzione di una presunta superiorità del pensiero dominante, della cultura nazionale.
Maxime Guyon non si cimenta tanto con il tema della tensione, della frattura: il nucleo del suo lavoro dal titolo Aircraft riguarda invece l’accentuazione, la duplicazione, la fusione. “La qualità tecnica delle fotografie corrisponde a quella tecnologica, indispensabile per sollevare da terra queste enormi masse metalliche e portarle in volo. Nelle fotografie di Guyon tutto è riprodotto con estrema nitidezza, dalle grandi superfici ai minimi dettagli, dallo scheletro completo di una cabina al più piccolo bullone. Percepiamo un senso di controllo, una visione frammentaria eppure totale, artificiosa, quasi feticista”. È quanto scrive Milo Keller nel testo che accompagna questo libro, prima di constatare che “le luci artificiali sottolineano la plasticità delle forme in un virtuosismo estetico studiato, parametrato, calibrato, che sorpassa la dimostrazione tecnica sterile imponendo un registro formale al contempo attraente e alienante. Siamo in uno spazio globalizzato, omogenizzato, sovranazionale”. Le fotografie iperrealistiche di Guyon ci trasportano in uno spazio concreto eppure irreale in cui, almeno così pare, l’universo ideale e quello tangibile non sono più separati, in cui l’eterna promessa della salvezza tecnologica compensa e annulla delusione e soddisfazione. Queste immagini alludono al fatto (o forse lo affermano) che la vita e la tecnologia, al termine del loro viaggio nel futuro possibile di un’integrità sintetica, si fonderanno, diventeranno una cosa sola.
INFO:
MAST Photography Grant on Industry and Work
Via Speranza, 42 – Bologna
Fino al 3 gennaio
Ingresso gratuito su prenotazione