Attualità

Come si denuncia un razzista: la storia non detta di Marco Rossi e della ragazza che l’ha scoperto

Come si denuncia un razzista? Come ci si comporta quando si diventa testimoni di un atto discriminatorio?
Non c’è un manuale che lo insegni, come non c’è una procedura definita che permetta di portare alla luce il fatto, di seguire delle linee guida per un’azione di verifica e riparazione, né, tantomeno, che garantisca tutele a chi si espone.
Denunciare un atto di razzismo implica una serie di domande e di problemi notevoli che possono portare la voce di chi ne parla a tacitarsi e a rinunciare, ci sono però voci che non accettano il silenzio, voci che quando compiono il salto da pensieri a parole si propagano abbattendo gli ostacoli che si parano loro davanti, assorbendo colpi, incassando gli urti e soffrendo, motivate da qualcosa di più grande: il desiderio di uguaglianza.

In questi giorni l’ennesimo episodio di spudorato razzismo è diventato virale, esponendo l’artefice, il calciatore Marco Rossi alle luci della ribalta per aver pubblicamente insultato una ragazza nera. Il video non ha più bisogno di introduzioni, dopo aver fatto il giro di Instagram si è diffuso sul web, venendo ricondiviso infinite volte. Rossi parla con evidente fastidio di un incidente d’auto in cui per sua stessa ammissione ha coinvolto una ragazza nera. Era ubriaco, “ci sta”, dice mentre con il cellulare inquadra sé stesso e poi la propria casa. Le parole che riserva alla ragazza sono piene di spregio e odio razziale, un odio definito e deciso che scarica sul colore della pelle della giovane, “C’è sta Ne**a di merda che crede di avere dei diritti” dice, “donne e diritti non dovrebbero stare nella frase”, il tutto perché la ragazza lo ha giustamente denunciato. Ormai sono in pochi a non sapere cosa sia stato detto in quel video. Sono in Francia in questo momento e mentre sorseggio il caffè ne parlo con un’amica che vive a Tokyo, tramite i canali italiani il video è arrivato fino a lei. Osservo l’erba che si riprende lo spazio del giardino dopo essere stata tagliata una settimana fa, vedo il vento scorrere e piegare gli steli, immagino così la prima condivisione che ha messo in moto il meccanismo che ci ha portato a prendere visione di questo video. Non so definire quale sia stato il primo stelo a piegarsi, ma so qual è stata la prima persona a soffiare sugli steli ritti, la prima a condividere il video di Marco Rossi chiedendo che venissero presi dei provvedimenti.

(Attenzione: il video contiene un lunguaggio altamente volgare e offensivo)

Le videochiamate fanno parte delle nostre giornate da anni, ma dopo il confinamento dovuto alla pandemia di Covid-19 sono divenute una prassi per tutti, grazie a questa nuova prassi ho potuto intervistare Marta (abbiamo deciso di utilizzare solo il nome della ragazza che per prima ha denunciato il fatto per tutelarla visti i pesanti attacchi che le sono stati rivolti), con il cellulare appoggiato a due libri per tenere un’inquadratura dignitosa inizio la chiacchierata mentre prendo appunti sul pc, lo schermo una pagina bianca che nell’arco di due ore diventa nera di lettere scritte in fretta per seguire il suo racconto. Ci salutiamo, due estranee divise da un confine, Marta si presenta con gentilezza senza però tradire la potenza del suo carattere, sentendola parlare capisco che è proprio quella forza disarmante e innata ad averle permesso di prendere una posizione prima e di non averla abbandonata poi.

La vicenda si svolge così, Marta scopre per caso il “video incriminato” scorrendo le storie di un profilo da lei seguito, H. un ragazzo nero che aveva tra i suoi contatti proprio il giovane calciatore autore del video. Marta rimane scioccata, lo vedo da come ne parla che ancora, nonostante siano passate settimane, è sconvolta e a tratti incredula. Presa coscienza della gravità del video decide di agire, nel 2020 non è accettabile che uno sproloquio così intriso di razzismo e misoginia passi inosservato. Salva il video, monta le storie una dietro l’altra così che non si perdano e comincia a parlarne. Non si limita però a fare dell’attivismo performante, non si ferma alla condivisione, è fin troppo cosciente che il tempo di un post o di una storia su Instagram sia troppo breve ed evanescente perché accada qualcosa. Comincia a scrivere, manda email alla società Monregale calcio per chiedere chiarimenti e azioni. Scrive anche alla scuola di Rossi e riceve risposta dalla dirigente scolastica che le assicura di aver convocato i genitori per l’accaduto, specificando però che la sua azione si fermerò lì perché il ragazzo, avendo sostenuto l’esame di stato, non è più ufficialmente alunno della scuola. A questo punto Marta si concentra sulla squadra di calcio del ragazzo ed è qui che iniziano i problemi, problemi che la perseguiteranno per settimane nel tentativo di farla tacere. Marta parla in fretta e con dovizia di dettagli, ricorda date e snocciola nomi con precisione chirurgica, un nome in particolare affiora nella prima mezz’ora di conversazione per poi rimanere con noi per tutto il tempo, quello dell’allenatore Matteo Gonella.
Dopo i primi tentativi di contatto con la squadra la ragazza comincia a scrivere commenti sulla pagine Facebook del Monregale calcio, seguita a ruota da altre persone, la società cerca di scrollarsi il potenziale scandalo di dosso con risposte ingenue, arrivando poi a cancellare i commenti. Ed è in questo momento che la figura dell’allenatore si fa avanti, accusando il ragazzo che aveva condiviso il video di essere l’autore della rimozione dei commenti. Le parole dell’allenatore in forma di messaggio vocale arrivano a P., un altro ragazzo che si è subito attivato riguardo alla sgradevole situazione, ascoltandole si capisce subito che la questione non riguarda solo un ragazzino, ma è probabilmente un problema sistemico, radicato e condiviso. Le parole dell’allenatore fanno venire i brividi, mentre scrivo le riascolto, sento la fronte corrugarsi dal ribrezzo. “Ma che c***o hai fatto, hai fatto cancellare i miei commenti perché non sapevi più articolare un discorso? Spiegami un attimo eh, coccola ne**i dei miei coglio**”.
L’educatore, il punto di riferimento della squadra, colui che semplicemente ricoprendo quel ruolo diventa un esempio per i “suoi” ragazzi si esprime in questi termini e ovviamente si era già profuso in una veloce difesa del ragazzo, asserendo che questi fosse una brava persona pentita di ciò che aveva detto. L’audio dell’allenatore è in giro, il vero volto della provincia comincia a delinearsi in queste parole. Un adulto che cerca di intimidire dei ragazzi e, non contento, lo fa con una retorica razzista. Quando capisce che l’audio è pubblico corre ai ripari, nascondendosi dietro una relazione con una ragazza magrebina, la gravità di questa giustificazione parla da sé. Nell’immaginario di Gonnella le persone nere passano dall’insulto all’alibi nell’arco di qualche scambio di battuta, si strutturano come oggetti nella sua mente.

A questo punto Marta viene contattata da un’amica dell’allenatore la quale si presenta in veste di sodale per poi lanciarle velate minacce su possibile denunce che Gonnella starebbe presentando contro di lei. All’equazione già tragica si aggiunge l’intimidazione, vogliono che Marta smetta di parlare prima che la sua voce, al momento ancora poco ascoltata, alzi un polverone sul ragazzo, sull’allenatore e sulla squadra. Gonnella nel frattempo cambia versione asserendo prima di aver registrato l’audio sotto l’effetto di alcol e poi negando di esserne l’autore. La ragazza contatta un giocatore della Monregale calcio che conferma ogni irragionevole dubbio, è l’allenatore l’autore di quell’audio.
Mentre la questione dell’allenatore comincia a volgere sul personale, minacciando Marta con potenziali denunce in merito alla violazione della privacy e diffusione di materiale di terzi, il resto della rete diffonde il video. Marta scrive a tutti, influencer, giornalisti, LeIene e Striscia la notizia, cerca una voce più potente della sua, invia email, fa telefonate e arriva persino a contattare i giornali locali come Cuneo Dice che liquida le sue istanze perché riferite a casi avvenuti lontano da loro.

Marta comincia ad accumulare lo stress per la minaccia intimidatoria dei quattro anni di prigione che le hanno sventolato sotto il naso, per il timore che il problema grave che sta denunciando passi inosservato e per la frustrazione per la risposta del giornale e le non risposte degli altri, intanto su Facebook e Instagram fioccano i commenti di utenti indignati accompagnati da qualche riga rabbiosa e minacciosa.

Mentre parla Marta precisa i termini legali, i nomi dei reati e assicura, mostrando gli screenshot di quanto ha scritto, che lei non ha mai voluto incitare all’odio, ma che ha sempre e solo chiesto che venissero fatte delle pubbliche scuse, ci fosse una punizione formale e una proposta concreta da parte della squadra di calcio per smantellare il razzismo. Nulla di tutto ciò sembra arrivare, passano le settimane e la solitudine della lotta unita all’ansia per le conseguenze che le hanno profilato le rubano il sonno. Ogni tanto sposto lo sguardo dal pc a lei e osservo il suo sguardo nello schermo del telefono, determinato e forte, perfora il vetro e mi trapassa da parte a parte.

Intanto la società calcistica comincia a scribacchiare qualche scusa, pubblica foto di mani nere e bianche che si danno il pugno e spera vivamente che la situazione finisca lì, la tendenza a risolvere tutto con un po’ di grafica non è nuova, al contrario è una prassi diffusa quella di voler dare l’idea di star facendo qualcosa e poi non procedere concretamente. Durante una diretta del giornale Unione Monregalese un giornalista risponde ai commenti di Marta sui commenti cancellati e l’assenza di dialogo sostenendo che la squadra di calcio abbia fatto tanto, anzi, pure troppo. Il dirigente della squadra scrive nei commenti che non bisogna scadere nel linciaggio mediatico, spiegando che la società si è limitata a cancellare i commenti maleducati e volgari, eppure dalle sue parole trapela altro: “Le accuse gravi e maleducate che la società ha dovuto eliminare, cancellando i commenti maleducati e accusatori di sconosciuti piovuti da chissà dove ergendosi a giudici e carnefici, non risolvono né il razzismo né la misoginia che tanto si sbandiera”, nella sua ottica è uno sbandieramento, un’accusa presunta e dunque nulla per cui valga la pena prendere una posizione chiara e definita. La Monregale calcio si rifiuta di chiamare le cose con il proprio nome e scarica la colpa su chi protesta. Anche Amnesty Cuneo fa la sua parte pubblicando un post in cui parla dell’accaduto in termini moderati riportando i fatti in maniera non corretta, addirittura imputando l’incidente alla ragazza nera, una vittima invisibile di cui tutti, tranne Marta paiono dimenticarsi, così decide di contattare l’admin dell’account Instagram per chiede spiegazioni che giungono presto con l’ammissione di Amnesty Cuneo di non aver visto il video prima di pubblicare il post. Sconcertante!

La storia si sta trasformando in notizia e ciò che conta è che se ne parli, dire la propria e cavalcare l’onda che grazie a Marta sta diventando uno tsunami. La società calcistica sospende il ragazzo e la famiglia assume come avvocato, Alessio Ghisolfi leghista convinto. La questione cresce, si allarga e si diffonde a macchia d’olio, c’è chi supera il limite, si accanisce contro Marta scadendo in parole violente, c’è chi scatena una rabbia furente contro l’ennesimo episodio di razzismo della provincia, a gennaio la grottesca scritta “Juden Hier”, qui vive un ebreo, era apparsa a Mondovì sul muro della casa della partigiana Lidia Rolfi, oggi abitata dal figlio. Qualche anno fa la lapide dedicata agli ebrei monregalesi deportati era stata vandalizzata con scritte volgari che lasciavano poco all’immaginazione.

Mondovì, Monregale, Cuneo: le piccole roccaforti di un razzismo che non vuole morire e non vogliono parlare della realtà orrenda che le pervade. Marta mi spiega che lei vive nelle Marche e non posso non ripensare alla riposta che le ha dato “Cuneo Dice” sulla lontananza geografica dell’accaduto. La verità è che non si tratta di lontananza, ma di disinteresse. Un disinteresse feroce che divora ogni rivendicazione antirazzista che non faccia notizia. Mentre Marta mi dice chiaramente i numeri di ricondivisione del suo post, per cui rischia il ban su Instagram, mi spiega che non sono quei numeri a interessarla ma vorrebbe solo che qualcuno facesse qualcosa di reale e tangibile, che desse un senso alla sofferenza di quella ragazza nera di cui non parla nessuno che si è sentita dare della “sc****” da un ragazzo che l’ha coinvolta in un incidente. Mentre parliamo, però, le cose cambiano: Rossi viene svincolato dalla squadra, Marta comincia a ricevere messaggi di influencer che vogliono farla parlare e darle spazio sulle loro piattaforme, mi osserva per un istante e mi chiede cosa dovrebbe fare.

Le sopracciglia scure le si contraggono, porta una mano al viso mentre scoppia a piangere, frustrazione, stress, ansia e sollievo si mescolano in quelle lacrime che, mi dice, per la prima volta hanno uno spettatore. In queste settimane ha pianto tanto e da sola, cercando un modo per fare la differenza, oggi, Marta piange, sapendo di esserci riuscita, ma sa che non è abbastanza. Cacciare un ragazzo da una squadra di calcio non è una soluzione, fa parte della soluzione, ma non la risolve. Marco Rossi ha bisogno di capire la ragione per cui è stato cacciato, l’allenatore deve comprendere che le sue idee sono pericolose e la Monregale calcio deve avere la certezza che non basta cacciare un ragazzo solo quando la questione è diventata di pubblico dominio: non è un’azione antirazzista, ma un modo per tutelarsi fingendo di agire. Cosa farà di concreto la società, come formerà i futuri membri della squadra? Cosa insegnerà d’ora in poi sul campo?

Se il Monregale calcio avesse preso posizione per tempo assumendosi la responsabilità di un’azione tempestiva ed educativa, la questione sarebbe stata risolta meglio e da tempo, ora stanno solo cercando di mettere una toppa su una cucitura allentata. L’iniquità con cui si trattano questi temi, il silenzio che è seguito alle richieste di Marta suggeriscono che forse l’antirazzismo non vende abbastanza, o meglio che non sia interessante a meno che non sia indicizzato come trend del giorno dai motori di ricerca. Forse la vera verità è che l’Italia è un paese razzista in cui però l’antirazzismo resiste, ingrossa le sue fila e comincia a farsi sentire, che ai razzisti piaccia o no, anche grazie ai social che permettono di creare legami al di là di quelli statici e morenti del passato. Marta si è sentita sola, rinchiusa in una gabbia di minacce velate, ma non per questo meno intimidatorie, ha cercato di farsi sentire, ci è riuscita, sulla strada ha trovato anche persone che, come lei, credono fermamente che certi comportamenti debbano essere condannati apertamente.

Questo è uno dei punti di partenza della lotta antirazzista, ogni singola persona deve farsi amplificatore per frantumare una volta per tutte le pareti della campana di vetro che protegge i razzisti. Marta ha fatto di più, da sola ha alzato la cloche dando modo a tutti di ascoltare la brutalità della verità, il Razzismo, come riporta Cassese ne “I diritti umani oggi” è riconosciuto a livello internazionale come un grave illecito, lesivo della dignità umana, Marta ha avuto paura ma non ha ceduto: ha parlato, ha condiviso senza fermarsi perché è così che si sconfiggono i nemici forti e radicati come il razzismo, senza cedere alla paura viscerale che incutono. Ora il Monregale calcio si sente costretto ad agire, paga la sua indulgenza cacciando il ragazzo, ma dovrebbe fare di più promuovendo uguaglianza e rispetto nelle sue fila. I comportamenti sbagliati vanno puniti e corretti, ma bisogna anche insegnare alle persone come e perché sbaglino e, soprattutto, come cambiare. Per farlo bisogna lavorare dal basso, dagli educatori e dalla società civile. Per fortuna grazie a persone come Marta i razzisti sessisti sanno di avere le ore contate perché presto o tardi l’antirazzismo porterà tutti i nodi al pettine per scioglierli una volta per tutte.

“Non basta essere antirazzisti con articoletti sui social, lo si deve essere nella realtà.” una frase potente che invita tutti ad un’azione reale che non sia solamente performativa, ma tangibile concreta e sincera.

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