Mentre la pandemia di Covid-19 continua a diffondersi in molte aree vulnerabili del mondo, Azione contro la Fame, organizzazione umanitaria impegnata nella lotta alla fame e alla malnutrizione, ricorda che le popolazioni rifugiati sono oggi i primi esclusi dalle risposte alla pandemia e restano i più vulnerabili a causa del virus. In tal senso, gli interventi in loro favore devono essere pienamente integrati nelle risposte sanitarie e socioeconomiche promosse dai singoli Stati.
Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), attualmente, ci sono quasi 80 milioni di persone che sono state sradicate dal proprio territorio di origine. Per lo più sono fuggite a causa di conflitti, violenze e persecuzioni, disuguaglianze economiche e sociali o a causa delle conseguenze dei cambiamenti climatici. A livello mondiale, l’80% si trova in Paesi a reddito basso o medio. Si tratta di territori in cui le strutture sanitarie, spesso, non sono sufficienti neanche per le comunità locali. E se ciò non bastasse, in questa situazione, le conseguenze delle misure, più o meno rigorose, di contenimento dei contagi hanno anche effetti devastanti sui più vulnerabili in termini di accesso agli aiuti umanitari, al cibo e ai beni di prima necessità.
“Sul campo, i nostri team vedono, ogni giorno, che un certo numero di campi profughi o insediamenti informali sono esclusi dagli aiuti di emergenza o dalle politiche di sviluppo. In queste zone, il sovraffollamento e l’impossibilità di accedere all’acqua rendono inefficace tutte le misure di contenimento e il distanziamento sociale promossi nell’ottica di prevenire la diffusione del virus”, ha dichiarato Simone Garroni, direttore generale di Azione contro la Fame.
In Libano il più elevato numero di rifugiati pro capite del mondo
Attualmente, in Libano, 1,5 milioni di rifugiati siriani (fuggiti dal proprio Paese a causa del conflitto iniziato nel 2011) sono suddivisi tra aree urbane e campi informali che non dispongono di reti idriche pubbliche. Molte famiglie, di conseguenza, hanno un accesso limitato all’acqua corrente e sono anche costrette a utilizzare servizi igienico-sanitari inadeguati che non consentono loro di applicare le più elementari misure igieniche per proteggersi dal virus.
A nove anni dalla crisi siriana, in Libano, è stato rilevato il più elevato numero di rifugiati pro capite del mondo. Circa il 38% si trova nella valle della Bekaa, quasi la metà di loro vive in tende o prefabbricati. Si stima che il 78% dei rifugiati siriani siano privi di una residenza legale: loro, per primi, hanno subito le conseguenze della grave crisi economica e finanziaria scoccata, in Libano, nell’ottobre scorso: nel 2019, è stato rilevato che il 55% dei rifugiati spenda meno di 2,90 dollari al giorno e, inoltre, abbia un livello medio di debito per famiglia equivalente a 1.115 dollari.
Tali criticità rendono impossibile la rigorosa applicazione delle più elementari misure di contenimento. L’approvvigionamento idrico è un miraggio. Il sovraffollamento e la scarsa igiene nei campi, inoltre, espongono i rifugiati a enormi rischi per la propria salute. Peraltro, se non direttamente esposti alla malattia, i rifugiati sono, comunque, gravemente colpiti dagli effetti perversi dei provvedimenti di lockdown, che impediscono loro di avere un accesso al cibo e ai beni di prima necessità. Sempre un più crescente numero di famiglie ha iniziato, dunque, a ridurre le spese legate ai generi alimentari, si stima che un terzo dei rifugiati adulti limiti il consumo di cibo, in modo che i loro bambini possano mangiare. Tre rifugiati su quattro, inoltre, hanno ridotto il numero di pasti quotidiani.
Il più grande campo profughi al mondo in Bangladesh
L’emergenza-Covid, nel più grande campo profughi del mondo, ha iniziato a prendere forma. A Cox’s Bazar, in Bangladesh, dove 855.000 civili Rohingya vivono in 34 insediamenti di fortuna, sono già decine i casi accertati di coronavirus in pochi giorni e quasi 400 i contagi confermati a Cox’s Bazar District, l’area in cui si trova questa grande “metropoli”. La pandemia costituisce una emergenza nell’emergenza: qui, infatti, a partire dal 2017, si è “consumato” l’esodo della popolazione Rohingya. Centinaia di migliaia di civili hanno attraversato il confine tra Myanmar e Bangladesh stanziandosi nei pressi di una spiaggia che si estende per oltre 120 chilometri.
Oggi, si stima che, all’interno del campo profughi di Cox’s Bazar, ogni chilometro quadrato sia occupato da 40.000 persone. Tra di esse anche migliaia di bambini: oltre il 40% soffre di malnutrizione cronica e le percentuali di malnutrizione acuta che li riguardano sono molto al di sopra delle soglie di emergenza stabilite dall’Organizzazione mondiale della sanità.
I “nuovi” rifugiati: il caso dei migranti venezuelani in Colombia
La Colombia, oggi, ha più paura della fame determinata dal coronavirus che della pandemia stessa. Qui, dove all’inizio dell’anno è stata stimata la presenza di 1,8 milioni di migranti venezuelani, i team di Azione contro la Fame hanno constatato che il 48% di loro non disponeva di alcuna fonte di reddito dopo il confinamento, contro il 4% rilevato prima delle misure di isolamento. Più in generale, in America Latina, gli effetti dell’emergenza-Covid creeranno in questa vasta area 29 milioni di nuovi poveri.
“La risposta internazionale alla crisi deve essere globale e includere tutte le popolazioni, comprese quelle costrette a fuggire dalle proprie abitazioni, con particolare riferimento alle persone anziane, alle donne e ai bambini. Sul versante della lotta alla pandemia, inoltre, le autorità nazionali devono trattare i rifugiati e i richiedenti asilo allo stesso modo degli altri cittadini”, conclude Simone Garroni.
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