Sono passati esattamente dieci anni dalla fine della terza e ultima stagione di Boris eppure, dopo la pubblicazione sulla piattaforma streaming Netflix è diventata in poche settimane una delle le tre serie più viste. Il suo segreto per non invecchiare mai è molto semplice, anzi no non lo è, il suo segreto è raccontare un paese che a distanza di tanti anni è ancora uguale, con le sue storture, con i suoi problemi, racconta qualcosa che in un modo o nell’altro tutti abbiamo vissuto, Boris ci piace, con il suo retrogusto dolce amaro, perché siamo noi.
Inoltre come può non essere un prodotto di successo quando alle spalle c’è un cast eccezionale capeggiato da Francesco Pannofino, il regista René Ferretti, e scritta da un superbo trio di sceneggiatori formato da Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo e Mattia Torre, purtroppo scomparso prematuramente a luglio 2019.
Infatti la “fuori serie” Boris è stata subito un successo, mi ricordo ancora più di dieci anni fa come alcune frasi o modi di dire entrarono a gamba tesa nel lessico di tutti diventando dei veri e propri tormentoni: “dai, dai, dai”, “apri tutto”, “sei troppo italiano”, “smarmella”… altri detti sono decisamente più volgari ma comunque calzanti a pennello in svariate situazioni in cui, diciamolo, ci si siamo ritrovati tutti sul nostro posto di lavoro.
Alcuni hanno scoperto Boris solo adesso grazie alla potenza dello streaming e altri (tipo me) hanno gioito nel poterla rivedere per la terza o quarta volta, ho perso il conto. Un altro punto a suo favore è sicuramente la colonna sigla di Elio e le storie teseche rimane nella memoria per sempre.
Al centro della narrazione il dietro le quinte di un set televisivo dove viene girata la soap “Gli occhi del cuore”, medical drama della Rete Ammiraglia. Già dal primo episodio si percepisce il disagio, René è il portabandiera di questo insieme di personaggi uno più al limite dell’altro e quelli che sembrano “normali” ovviamente non sono considerati, come lo stagista, interpretato da Alessandro Tiberi, di cui nessuno ricorda il nome e che tutti chiamano Coso o anche “lo schiavo”, subisce le angherie tirannesche che raccontano, in modo forzato ma non troppo, alcune dinamiche e gerarchie del mondo del lavoro.
Questo set sembra più un campo di battaglia dove il regista deve combattere tutti i giorni, insieme all’unica persona sana di mente Arianna (Caterina Guzzanti) l’assistente alla regia, con il suo l’aiuto regista, Alfredo (Luca Amorosino), che come priorità spaccia e ha tra i suoi primi clienti proprio il direttore della fotografia, Duccio Patanè (Ninni Bruschetta) che ama tanto il suo lavoro perché gli permette di stare comodamente stravaccato sul divano, la cui cifra stilistica consiste nell’aprire tutto e smarmellare, dando ordine di eseguire a Biascica (Paolo Calabresi) l’elettricista con un leggero debole per la Roma e per lo schiavismo. Poi c’è la segretaria di edizione, Itala (la meravigliosa Roberta Fiorentini, anche lei scomparsa nel 2019), che è costantemente ubriaca. Sempre nel dietro le quinte c’è Sergio (Alberto Di Stasio), il produttore esecutivo, al limite tra la criminalità e l’imprenditoria e il portavoce tra la rete e il set Lopez (Antonio Catania) totalmente asservito al potere, se la rete parla lui tace, qualsiasi siano le richieste, anche le più assurde l’importante è accontentare i “potenti”.
Ma chi non può mancare in una soap? Ovviamente le star, che altrettanto ovviamente sono tutte raccomandate e soprannominate dallo stesso Renè “cani maledetti”, il divo per eccellenza è Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) un simbolo per Occhi del Cuore, fuori dagli schemi e così poco “italiano” e Corinna (Carolina Crescentini) “cagna maledetta”, nelle serie successive sono tantissimi i personaggi dello spettacolo che vogliono entrare a far parte del cast, così incontriamo attori del calibro di Corrado Guzzanti, Eugenia Costantini, Giorgio Tirabassi, Marco Giallini, hanno fatto anche dei camei Jane Alexander e Paolo Sorrentino.
Con i suoi 42 episodi in cui si mostrava il peggio della televisione italiana dove la parola qualità era sinonimo di “monnezza” Boris ha dimostrato esattamente il contrario, che anche in Italia un’altra televisione era possibile e la storia ce lo ha dimostrato.
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