Che ne sarà di noi? Il mondo dopo l’epidemia di Covid19
Il mondo dopo l’epidemia di Covid19 è ciò che stiamo tutti aspettando, ognuno a modo suo. Appoggio l’Iphone al tavolino e rifletto sulle parole che Yuval Noah Harari ha scritto per il Financial Times: sorveglianza totalitaria e nazionalismo contro responsabilizzazione dei cittadini e solidarietà globale.
Le grandi minacce della politica estremista stanno trovando terreno fertile in cui attecchire, la minaccia di un nemico globale con un’origine locale è qualcosa che il dibattito populista non poteva immaginare nemmeno nei sogni più audaci.
Prima del mondo del dopo, del superamento, c’è il mondo di adesso su cui bisognerebbe riflettere, le persone si sono chiuse in casa, chi più chi meno, per proteggersi e proteggere, qualcuno però ha operato questa scelta secondo una proposizione esclusiva, “per proteggersi o per proteggere”, i millennial, tendenzialmente, sono in casa per proteggere, la statistica è dalla loro e probabilmente, se non l’hanno già avuta, contrarranno la Covid19 e la supereranno asintomatica o sintomatica che sia. Gli anziani, invece, sono in casa per evitare di incontrare il virus in uno starnuto disordinato in strada o, almeno, dovrebbero. I supermercati sono pieni di persone considerate a rischio, le stesse che si mettono in fila indiana un’ora prima dell’apertura, bardate di tutto punto con mascherina, sciarpa perché non si sa mai, guanti, cappellini e giacche voluminose. Le generazioni di mezzo sono divise tra chi è a casa, preoccupato per salute e lavoro in egual misura, e chi lavora senza possibilità di svolgere le proprie mansioni in remoto.
Questo è il nostro microcosmo, un mondo piccolo e limitato in cui cantare dal balcone per una settimana e insultare, su Instagram, chi esce la settimana dopo.
Le notizie ci hanno disegnato un confine ben stretto, murato con fake news rinsaldate l’una all’altra dai titoli sensazionalistici delle testate più rispettabili, parliamo della malattia agli aperitivi online sperando che qualcuno possa dire qualcosa di illuminante e rassicurante, parliamo di Covid19 al telefono con i parenti lontani, ne scriviamo sui social, ne abbiamo paura al supermercato, pensiamo alla malattia prima ancora che a noi stessi.
Siamo asserragliati in una guerra in cui la trincea è il pianerottolo di casa, siamo tutti determinati a conquistare quello che c’è oltre, al di là, ma non osiamo, ci rincantucciamo in casa, mangiando pane impastato a mano e ingurgitando serie Netflix e dirette di Instagram a gogo, seguendo l’unico ordine che abbiamo ricevuto: mantenere la posizione.
In questa stasi tutto si muove, forse, nella direzione giusta.
Il patto di stabilità galleggia sospeso, il Fondo Monetario internazionale promette mille miliardi di dollari per sostenere il mondo durante l’epidemia, i medici viaggiano per portare aiuto e soccorso, le tecnologie farmaceutiche raggiungono ogni portale sanitario del globo con un weTransfer o una mail, nel tempo necessario alla rete per consegnare il messaggio. Secondi, forse minuti, sono tutto ciò che ci separa virtualmente l’uno dall’altro.
A remare contro questa tendenza ci pensano i populisti e politici dai programmi vuoti trovandosi a non poter far altro che cavalcare l’onda della notizia, ciarlando di colpe non esistenti e di soluzioni anacronistiche.
Il mondo che sarà dipenderà dalle scelte che facciamo oggi, se siamo in casa solo per noi stessi, solo per l’Italia, lo scivolone verso il nazionalismo è già fatto.
L’altra sera ero su Skype con uno dei miei cugini che vive in Francia a Lione, abbiamo chiacchierato, riso e, inevitabilmente, parlato di Covid19 pensando al dopo, il dopo dipenderà da cosa stiamo attendendo ora. Bearsi dei conigli che fanno capolino vicino via Stephenson è assolutamente inutile se il primo pensiero per la prima uscita è una cena All You Can Eat, può sembrare crudele pensare che ci vedremo costretti a limitare i nostri sfizi anche dopo la quarantena, ma è una realtà con cui dovremo fare i conti. Il nostro modo di vivere e consumare, di dislocare la produzione, di chiudere gli occhi quando gli Stati Uniti contribuiscono al fallimento del Protocollo di Kyoto e l’accettazione generale con cui rifiutiamo il cambiamento climatico devono rimanere all’era pre-covid19.
Siamo di fronte ad un momento cruciale della storia del mondo, in queste giornate lunghissime possiamo leggere, studiare, cucinare un pasto da zero, concentrarci sulle persone che amiamo e riflettere su tutto ciò che ci circonda, abbiamo, però, anche la possibilità opposta, quella di rintanarci nel mondo delle fiction, delle speculazioni della D’Urso, delle lamentale e dei drammi finti ed è un rischio, non per noi, non per chi vive nell’Occidente bianco e privilegiato, è un rischio immenso che corrono i paesi del Sud del Mondo, quelli in cui le epidemie non sono contenibili, in cui ancora si muore per malattie contro le quali siamo stati vaccinati grazie al welfare statale.
Se in Madagascar, in Liberia, in Congo e tanti altri si muore ancora di Morbillo e chi sopravvive lo fa grazie agli aiuti umanitari, una malattia come Covid19, che si trasmette con una facilità disarmante, compirà uno sterminio.
Le economie scricchiolano sotto il peso del SARS-COV-2, mostrano il ventre molle e vulnerabile del capitalismo liberista, le economie in via di sviluppo si fratturano, perdendo quei pochi introiti che avevano, lo stop al turismo, con i suoi 8 miliardi di dollari annui mal allocati, fa crollare le poche strutture fragili dei paesi del Sud del Mondo, il sostegno che questi paesi possono dare alla popolazione è marziale e autoritario, il pericolo di colpi di stato è altissimo.
Ai colpi di stato seguirebbero le dittature che con le loro carenze di tutela di diritti umani farebbero precipitare nel baratro luoghi che sopravvivono sull’orlo dell’abisso.
Il domani potrebbe essere tragico, per alcuni molto più che per altri, i dimenticati e gli espulsi, i poveri, i senzatetto, i rom, i migranti, i popoli afflitti da guerre, epidemie, carestie, danni ambientali, povertà cronica e via discorrendo… si troverebbero in una situazione persino peggiore. Nel 2011 si contavano 42 milioni di persone costrette a migrare a causa di guerre, epidemie e carestie, la situazione non migliorerà se non cambieremo qualcosa alla fine di tutto questo, il degrado ambientale aumenterà, drasticamente considerando i picchi produttivi con cui alcune aziende cercheranno di innescare la ripresa, aumentando i rischi di altre epidemie, persino peggiori.
Il domani potrebbe essere drammatico, ma per fortuna potrebbe anche non esserlo, il SARS-COV-2 ci ha dato una grande dimostrazione scientifica della realtà dei fatti colpendo sia i “Boris Johnson” sia gli abitanti di Bergamo, spargendosi come un miasma dalla Cina all’Italia. La fattualità ci dimostra che siamo tutti umani, per quanto qualcuno si consideri più umano di altri, e che siamo tutti collegati, dal benessere di pochi non si genera quello dei molti, al contrario, dal benessere dei molti si genera quello dei tanti.
Il mondo post COVID19 è un mondo di speranze e di attenzione, di coscienza civile e globale, un mondo in cui, per citare Harara, sceglieremo “la solidarietà globale” per andare avanti, migliorando le condizioni attuali non solo per chi c’è, ma anche per chi ci sarà.
Per il momento i più fortunati sono nella loro trincea, più o meno grande, in attesa del dopo, quello che ci rimane da capire è il potere assoluto che abbiamo su quel dopo e trasformarlo in scelte di consumo consapevole, in scelte politiche responsabili e orientate al supporto globale e in abitudini diverse.
A breve uscirò in balcone a leggere un libro di Naomi Klein e ad ascoltare il suono cinguettante degli uccellini, starò lì senza curarmi del tempo, beandomi del modo buffo che hanno le tortore di scappare quando arrivano le cornacchie sull’enorme magnolia qui di fronte. Vivo in centro a Milano e spero che anche nel mondo dopo Covid19 questi suoni rimangano. Sono in casa da 21 giorni e ho scelto di farlo in maniera ligia per gli altri, per i ragazzi nigeriani cui offriamo il caffè quando li incontriamo fuori dal supermercato di zona intenti a chiedere l’elemosina, per le persone senza fissa dimora che abitano sotto il ponte in Piazza Carbonari, per mia nonna che quest’anno dovrebbe compiere 90 anni a settembre, per tutte le persone che ho sfiorato con lo sguardo nelle slum in India e quelle che oggi stanno compiendo il tragitto che separa le grandi città dai villaggi di origine a piedi, per tutte quelle che non conosco ma so che esistono e che meritano che io stia a casa e pensi come costruire un domani migliore.