Le Comfort Women sono uno scomodo e vagamente celato segreto, raccontano una storia davvero cruda, portano con sé un susseguirsi di eventi così tragici nella loro sistemicità che sembra quasi impossibile non averne mai sentito parlare. Eppure questa parte della storia coreana non solo è poco studiata, ma è persino negata.
Ed è proprio da qui che inizia il nostro racconto, siamo a Seoul, piove una pioggia grossa e pesante che infradicia persino gli ombrelli di plastica trasparente da cui osserviamo piccole cascate distorcere i contorni plumbei del cielo. Siamo quasi arrivati all’Ambasciata Giapponese, forse non ci sarà nessuno, questo non lo diciamo ma è il nostro sinistro timore. La via in cui siamo diretti si presenta piuttosto anonima, costellata di palazzoni grigi dalle innumerevoli finestre in vetro che, con il maltempo, paiono lastre d’acciaio. L’Ambasciata Giapponese, ci indica il navigatore, è a pochi metri da noi, notiamo subito un chiosco a motore color rosa, quasi smorto nella luce fioca. Diversi ragazzi coreani ci notano, ci osservano, ci girano attorno fino a che uno di loro, quasi incredulo, non si convince che siamo davvero lì proprio per quel motivo. Si avvicina, ci ringrazia in un inglese preciso e pieno di inflessioni, “Grazie per esserci, è bellissimo. Caffé?”.
Accettiamo, il ragazzo ci guida al baracchino, osservandolo notiamo recare la foto del viso di una signora anziana, “Lei è la fondatrice” ci dice allegra una ragazza passandoci i caffè, poi tace. Sorseggiamo mentendo sulla bontà squisita del caffè, poi la ragazza prosegue “lei era una sopravvissuta” continua improvvisamente seria, “quando è morta, un anno fa, ha fatto in modo che il suo lascito fosse usato per creare questa associazione, perché la memoria non morisse con lei”. Dietro la tazza di caffè, spalla a spalla con Save il mio compagno, osservo il viso sorridente di quell’anziana signora che, una volta, era stata una bambina. Una bambina rapita, stuprata e schiavizzata.
Nel frattempo intorno a noi si sta formando una piccola folla, la pioggia non ferma nessuno, i camion delle troupe televisive e i giornalisti cominciano ad asserragliare il marciapiede opposto a quello in cui i manifestanti prendono posto, la polizia crea un cordone, meccanicamente. I manifestanti si siedono, cercano gli amici, chiacchierano. Ci sono molti ragazzi in età scolare, tengono sottobraccio delle tavolette su cui chiedono ai passanti di attestare la loro presenza con una firma, quei plichi di fogli carichi di firme verranno poi consegnati ai loro professori.
Prendiamo posto in mezzo alla folla, è strano pensare che qui, su questo marciapiede, ogni mercoledì da 27 anni si raggruppino persone di ogni età per protestare di fronte all’ambasciata giapponese per chiedere, finalmente, il giusto riconoscimento, ancora mai arrivato, di quanto accaduto durante l’occupazione giapponese in Corea.
Da prima dello scoppio della seconda guerra mondiale la Corea del Sud era occupata dal Giappone, ma non solo, l’Impero nipponico controllava la maggior parte degli stati insulari del sud est asiatico, una buona porzione di Cina, addirittura era pronto a conquistare l’Australia. Per dare conforto ai soldati di stanza all’estero, per evitare un fenomeno sregolato e proteggere la popolazione locale, i vertici dell’esercito giapponese decisero di creare le “comfort station”, luoghi sicuri in cui donne volontariamente arruolatesi avrebbero potuto fornire conforto ai soldati. Questa era l’idea estratta dai documenti ufficiali: conforto, volontarie, protezione.
Proprio da questo deriva l’inganno, la vita delle donne di conforto non aveva nulla a che vedere con le tre parole di cui sopra, le bambine e le ragazze venivano rapite dai loro villaggi, venivano ingannate con promesse di lavoro in terre lontane per indurle ad allontanarsi, invece da quel momento principiava il loro lungo viaggio dove venivano riallocate sul territorio nelle “comfort station”.
Dopo una visita medica piuttosto sbrigativa, cominciavano a prendere servizio nelle stanzine delle costruzioni in legno, due metri per tre, adibite all’uopo. La loro vita da quel momento si sarebbe svolta ogni giorno nello stesso modo, queste ragazze venivano violentate a ripetizione dalla lunga fila di soldati che sostava fuori, in coda, in attesa del proprio turno per essere “confortati”.
Le conseguenze furono devastanti, cosa accade a un corpo violentato, percosso, deriso, contagiato per anni? Lo stesso che accade alla mente: si autodistrugge.
Si piega ad una violenza inaudita, accartocciandosi su sé stesso, quasi nutrisse il desiderio di svanire nel nulla, di rincantucciarsi nell’angolo più angusto della stanza per non essere visto, non essere più toccato. Una volta liberate, queste ragazze, non avevano nemmeno la forza per raccontare, per sperare di essere credute, si vergognavano, temevano l’onta che portavano dentro, talvolta anche tra le braccia nella forma di un bambino emaciato con il volto di un soldato qualunque, quasi come se la vittima si fosse tramutata in colpevole, in autore del suo stesso dolore.
Com’è possibile sia accaduto tutto questo? La spiegazione si trova ancora oggi nella società, in tutto il mondo subire una violenza sessuale porta con sé una buona dose di pregiudizio e stigma sociale, ancora ci si chiede se la vittima non avesse un modo per evitarlo, se in fondo non l’avesse voluto, in fin dei conti vestita a quel modo a quell’ora della notte…
La verità, scomoda ma reale, è che sul corpo delle donne si misura l’onore dell’uomo, l’integrità di una famiglia, l’orgoglio di uno stato. Alle donne è negato il possesso del proprio corpo sin da quando da bambine viene insegnato loro che devono essere belle e carine, che devono essere desiderate e non pensare a desiderare. In guerra questa cultura si trasforma nel suo lato più grottesco, gli stupri sembrano essere assurti ad un fatto della guerra, quasi fosse normale, quasi fosse lecito che il soldato, dopo aver ucciso, si conceda un po’ di “conforto”.
Penso a tutto questo mentre osservo le persone prendere posto e intervenire durante la protesta, oggi è addirittura più nutrita del solito, essendo alimentata anche dal flusso di “boycott Japan” conseguente alla recente rottura tra Giappone e Corea del Sud. Scattiamo foto, dei bambini mettono in scena uno spettacolo, segue un piccolo coro cui tutti i partecipanti si uniscono, infine, assistiamo a interventi e dibattiti in coreano.
Strizzo gli occhi per scorgere la persona sul palco, la marea di ombrelli e teste si muove, oscillando quel tanto che basta ad annebbiare la figurina nerovestita che, a pieni polmoni, sta urlando qualcosa puntando il dito contro i vetri dell’ambasciata. D’un tratto sento la manica tirare, quasi non ci avrei fatto caso se la cosa non si fosse ripetuta, mi trovo accanto una signora coreana, minuta, sulla sessantina, mi sorride con quel volto ovale che spunta da un caschetto arruffato, parlando inglese ringrazia me e Save per essere lì, addirittura arriva ad abbracciarci entrambi, con una stretta forte, le chiediamo se possiamo farle una foto, annuisce. Fa per andarsene ma ci ripensa, torna indietro e si leva una spilla dal petto, “te la regalo”.
Sulla spilla rosa si delinea il busto senza lineamenti di una bimba coreana in Hanbok, l’abito tradizionale, la osservo riconoscendo il profilo della statua della pace, appena a pochi metri da me e ci avviciniamo. La statua rappresenta una bambina seduta, i capelli corti al mento, lo sguardo fisso diretto verso l’ingresso dell’ambasciata, accanto una sedia in ferro, al momento occupata da un manifestante che solleva un cartello con scritto a grosse lettere nere “boycott japan”.
Quando siamo arrivati nella stradina pioveva davvero forte, abbiamo visto un gruppo di persone avvicinarsi alla statua e parlottare fino a che qualcuno non ha estratto una mantellina a fiori e l’ha coperta. L’ha protetta.
Il cielo si è vagamente sereno, ha smesso di piovere, ma nonostante questo la bambina è rimasta coperta, anche quando i manifestanti hanno iniziato a disperdersi, nel pomeriggio è prevista pioggia. Qualcuno passando ne sfiora la spalla, quasi come volessero essere solidali con lei, quasi fosse viva, la viva speranza che un giorno tutte le 400.000 donne impiegate come prostitute nelle stazioni di conforto troveranno finalmente la giustizia e il riconoscimento che meritano.
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