Malapuglia, il nuovo libro di Andrea Leccese edito da Castelvecchi, si apre con una citazione di Luciano Violante, emblematica per tutto il percorso sulla mafia pugliese abilmente ricostruito dall’autore: “La mafia pugliese è anomala rispetto alle altre. In Sicilia, Calabria e Campania le organizzazioni sono storiche, hanno tradizioni e origini che affondano le loro radici nella storia politica ed economica della regione in cui operano. La vicenda pugliese rappresenta invece un classico caso di utilizzazione mafiosa di un territorio originariamente non mafioso e di ‘mafiosizzazione‘ di una criminalità priva di tradizioni, ma che è stata rapida nell’assimilare le caratteristiche proprie delle organizzazioni mafiose storiche”.
La cultura mafiosa pugliese ha iniziato a svilupparsi negli anni ’80, a seguito di una congiuntura “favorevole” tra alcuni fenomeni quali un processo di imitazione delle formazioni criminali storiche (in particolare con la spinta imprenditoriale della ‘ndrangheta) e alcune mancanze in seno alle istituzioni (in primis la lunga sottovalutazione dell’autorità giudiziaria nei confronti dei boss).
Così le organizzazioni malavitose hanno iniziato a permeare l’intera regione, segnando sentieri diversi tra loro. In questo volume, infatti, Leccese procede nella sua analisi per differenze, chiarendo fin da subito come la mafia pugliese sia anomala rispetto alla già citata ‘ndrangheta e a Cosa Nostra.
Neppure la stessa Sacra Corona Unita, organizzazione criminale a cui viene solitamente associata la Puglia, e un tempo presieduta da Giuseppe Rogoli, rappresenta un volto unitario. Di fatti, fallito il disegno di una federazione di gruppi criminali, ora essa si presenta con diverse formazioni localmente caratterizzate. Ma è soprattutto sulla malavita barese che lo scrittore si sofferma, ritenendola la più insidiosa ed evoluta.
Noi abbiamo intervistato A.Leccese per conoscere più da vicino le ragioni alla base della sua trattazione e il parere esperto circa le eventuali e necessarie misure contrastive del fenomeno mafioso.
Cosa l’ha spinta maggiormente alla stesura del libro in cui in maniera paziente e completa traccia i profili delle diverse mafie pugliesi?
Ho scoperto che non c’era un solo libro che parlasse delle mafie pugliesi, dalle origine ai nostri giorni. E questo è certo sintomatico di una sottovalutazione del fenomeno. Sul punto, amo citare Sciascia: «I mali sociali sono proprio come le malattie individuali: nasconderli, negarli, minimizzarli vuole dire soprattutto non volerli curare, non volere liberarsene».
Qual è, a livello sociale, l’ostacolo più arduo per il quale i più giovani coinvolti nella realtà e nella mentalità mafiosa pugliese non riescono a staccarsene?
Da sempre le mafie pugliesi esercitano un forte potere attrattivo nei confronti dei giovani. È facile comprendere come tanti ragazzi che crescono in famiglie di disoccupati e pregiudicati, magari nei più degradati quartieri popolari, siano obbligati a seguire l’unico percorso che viene loro mostrato: quello della delinquenza, con la speranza di poter fare carriera affiliandosi a un clan mafioso. Tuttavia, l’evidenza giudiziaria mostra che si avvicinano alla malavita anche ragazzi cresciuti in famiglie cosiddette “perbene” e in contesti non particolarmente difficili. Probabilmente sono attratti dal desiderio del guadagno facile. Be’ forse dovremmo proporre ai giovani valori alternativi alla imperante cultura dell’egoismo, al culto del dio denaro. Rispolveriamo, per esempio, la cultura della solidarietà, troppo trascurata negli ultimi decenni.
Secondo lei esiste una cura “più infallibile” tra tutte? In cosa dovrebbe consistere il giusto mix tra istituzioni e spinte socio-culturali affinché lo spirito della legalità possa pervadere anche tra i tessuti urbani più emarginati?
Io non pretendo certo di avere una “ricetta infallibile”. Va sicuramente arginata l’esclusione sociale. Lo “stato sociale”, che si fonda sull’art. 3 della Costituzione, deve essere difeso e rivitalizzato. Ci sono forze politiche che oggi vorrebbero uno “stato minimo” che non si occupi più della difesa della dignità dei cittadini e della promozione dell’occupazione, ma solo della “difesa delle frontiere”. Insomma un ritorno all’Ottocento. Noi abbiano perciò il dovere etico di reagire a queste spinte reazionarie. Bisogna riscoprire quella bella idea di Ernesto Rossi di “abolire la miseria”. Sono soprattutto i “miserabili”, i figli dei bassifondi cittadini, a scegliere di affiliarsi ai sodalizi mafiosi. «Se non si riesce a dare una maggior sicurezza di vita e maggiori opportunità di perfezionamento e di successo anche agli individui che appartengono agli ultimi strati della popolazione, la nostra civiltà non ha avvenire, e minaccia di essere sommersa dalla barbarie», ha scritto Rossi. Mi piace ricordare le parole pronunciate da una mamma nel giorno di apertura del maxi-processo alla camorra barese del 1891: «Ca ce stève la fatiche, chidde povre file de mamme non facèvene le magabbùnde». Tradotto: «Se ci fosse lavoro, i ragazzi non farebbero i delinquenti». Come darle torno? Poi bisogna puntare sulla cultura, costruendo scuole e presidi di legalità nei territori più difficili. È sempre valida l’intuizione di Gesualdo Bufalino: «la mafia sarà sconfitta da un esercito di maestre elementari».
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