Alessandro Cannavale, insieme al genio e alla manualità artistica di Miriam Piro, è l’autore di Versi randagi, una silloge di liriche edita da Les Flaneurs edizioni.
Poesie brevi, randagie per l’appunto, perfettamente capaci di afferrare in una stretta comune lo spirito dei tempi. Quello perduto ma, dall’altro lato, anche quello che tenta alacremente di ravvivarsi.
Del resto, il randagismo è una condizione ontologica imprescindibile. Una concatenazione che partendo dall’io più intimo e “osservante” sfocia in un’empatia molto forte, soprattutto nei riguardi di qualcuno o qualcosa apparentemente “diverso” da noi. Ecco, questa raccolta celebra il superamento dei confini.
E poi ci sono le illustrazioni di Miriam, compagne fedeli e salvifiche della lingua dei versi. Traduzioni visive che incalzano e causano una spinta al ritmo del cuore. Il lettore, allora, può cogliere un’esperienza totalizzante. Rivive, infatti, certe ferite, magari del tutto aperte o forse in parte chiuse, ma dalle quali arriva un grido: esse stesse sono il miracolo che ripristina la bellezza.
Abbiamo intervistato l’autore per approfondire meglio i temi chiave dell’opera e non solo. Per addentrarci nei meandri di Versi randagi, non si può non ragionare sull’attuale condizione della poesia. E in questo Cannavale è stato più che eloquente, donandoci di fatto un bel pezzo del suo animo.
In un momento come questo in anche una conversazione faccia a faccia è difficile, qual è il posto della poesia?
La poesia è indispensabile proprio in momenti come questo, in cui diventa difficile comunicare tra persone e gruppi sociali, in cui l’insulto è la preclusione a ogni sintesi costruttiva. Le differenze diventano incolmabili diversità e tutto ciò che non sia omologato alla flessuosità della gaussiana è sospinto oltre il confine del proprio gruppo sociale di riferimento. A ben pensarci, sono vecchie dinamiche da sapiens, mutatis mutandis: stai bene fino a quando sei accettato dal gruppo; al di fuori, la condanna è quella di abitare il tuo inferno. Ancora oggi, il dibattito politico è quello dei confini. I confini rassicurano, confortano. Ma non esistono. Sono la più grande e sanguinosa menzogna della storia. La poesia arriva invece ai gangli vitali, morde i problemi senza lungaggini. Quando hai finito di leggerla è già avvenuto un corto circuito inconsapevole di sensibilità. Ha la velocità dell’intuizione, di un farmaco sublinguale, pur manipolando materie intime, complesse, incandescenti come magma, talvolta dolorose come ulcere. Questo libro, nato da un’intesa con Miriam Piro, che ne ha curato tutta la parte grafica, è una simbiosi che punta a un dialogo su più piani con i lettori.
Qual è secondo te il modo di riattualizzare la poesia? Come renderla fruibile a una generazione che, in parte, la vede come un miraggio “alla rovescia”?
Credo sia di fondamentale importanza avvicinare alla poesia il maggior numero di persone possibile, anche attraverso i nuovi media. La poesia è nata come atto corale ma spesso è rinchiusa nei confini di un’esperienza intimistica, terapeutica. Credo che, invece, possa e debba essere un utile strumento di azione civile, con molta più concretezza di quanto si possa immaginare, per la sua capacità di veicolare messaggi su più piani. Bisogna portare i giovani sulle tombe dei Poeti, mostrare, con la concretezza della terra e delle ossa, che l’eternità è un miracolo possibile solo per l’arte. Il resto è effimero, vanità, come in Qoelet.
È stato difficile decidere di rendere pubbliche alcune liriche o la raccolta è stata accompagnata dalla ragion d’essere un viaggio interno rivolto all’esterno?
Questa indagine nasce da un’esigenza terapeutica: denunciare le ansie per superare un momento difficile. Inizialmente, ho scritto per me stesso, viaggiando in treno, per trovare risorse interiori in modo da superare momenti duri. Poi ho scoperto che mi procurava benessere denunciare pubblicamente le mie debolezze sui social network, invece di vergognarmene. A seguito di questo, la mia indagine si è intrecciata con la ricerca artistica dalla coautrice Miriam Piro i cui disegni hanno, nel libro, un rilievo fondamentale. Esiste a mio avviso un’umanità randagia, che sente più vicino il bordo della linea: il margine grigio dell’oscurità, dove ogni membro della comunità umana si confronta con i suoi personali orizzonti. In alcune fasi della nostra vita, più o meno lunghi, ne siamo parte, in modo quasi sempre inconsapevole, soprattutto perché l’intruglio sporco e informe di pensieri, lacrime ed emozioni non trova giaciglio nell’anima. L’interiorità si gonfia fino a ridurci a uno spiraglio percettivo, il suo affaccio sul mondo è un avamposto sulle avversità. È uno stato in cui galleggiamo tra ricerca disperata di soccorso e un naufragio spesso inconsapevole, orientato, ma soltanto a tratti, da insperati ritrovamenti di somiglianze, di esperienze ed emozioni.
La contrazione causata dal dolore sulla muscolatura agisce sulla capacità di percepire il mondo. È simile alla percezione contenuta dello sforzo nella vittima che fugge davanti al proprio carnefice. È la visione del fuggiasco: parziale, adombrata, obliqua eppure
efficace, meno incline al dettaglio. Una sorta di visione scotopica, uno slittamento dei confini delle capacità percettive, esteso ai vari sensi. È la percezione sensoriale dei vagabondi nella notte dello spirito: i randagi. Anche la percezione del bello e del buono, superata la linea d’ombra, ne viene alterata. Le categorie del buono e del malvagio mutano la propria geografia. I confini diventano mobili. Il tempo stesso diventa lentissimo o troppo veloce. Il confine tra realtà, sogno e visione si lacerano e divengono meno netti. A tratti, impercettibili. I randagi sanno come non si possa esser fratelli sulla via del dolore. Solo viandanti che si incontrano su una strada e si salutano accennando, con uno sguardo, alla croce e al percorso. Si resta figli unici di quel tempo duro, davanti a un referto infausto come a una scadenza di contratto da lavoratore precario. Sono sentenze inappellabili, mentre gli altri si muovono intorno come insetti affaccendati su piccole cose a costruire muri di indifferenza e isolamento dalla comunità. Siamo orfani di una comunità umana e lo scopriamo solo in questi frangenti. La fede nella poesia può costruire argini alla solitudine, crocicchi di parole in cui ritrovarsi per celebrare la nostra appartenenza al genere umano.
Ci sono più motivi ispiratori che tornano: qual è quello che ti rappresenta di più?
Il punto di partenza della mia indagine è stata la visione degli “occhi dei randagi”, che ho ritrovato, poi, in una bella descrizione fatta da Curzio Malaparte. “Ed è vestito come son vestiti gli operai, quelli di mezza età. Parla senza alzar la voce, senza ira né paura, né orgoglio, pianamente, come chi sa di aver ragione. E parlando ti guarda. Il viso non ha nulla di straordinario, ma gli occhi! Ha gli occhi che hanno gli uomini disgraziati, i quali sanno che cos‘è la miseria, la paura, la fame. Ha quel che il popolo chiama «occhi di cane». C’è negli occhi del cane quel che non c’è nella maggioranza degli esseri umani, neppure nei bambini spauriti, nei bambini affamati. Il senso di una colpa orribile, della colpa altrui, di tutta la colpa del mondo. […] E un che di duro, una sentenza, un giudizio. Una misura. Non la sentenza, il giudizio, la misura di un giudice, ma di un condannato. ha gli occhi di un morto. Di un uomo che guarda gli uomini dal fondo della morte. Quegli «occhi di cane» che hanno i morti. Tristi, mansueti, disperati. Con quella sentenza, quel giudizio, quella misura, nel fondo. Gli occhi del condannato, che misura e giudica il mondo dei giudici”. Il punto di arrivo è stato sorprendente, forse traspare bene nel libro, sia nella componente lirica che in quella grafica: le ferite possono essere l’humus miracoloso sui cui far risorgere la fiducia nella bellezza, in tutte le sue possibili declinazioni.
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